Abbiamo visto “ Il Regno d’Inverno “ diretto da Nuri Bilge Ceylan.
Film che sa di antico e prezioso, film che ci catapulta in un tempo e con ritmi ormai dimenticati. Vedere “ Il regno d’Inverno “ è un po’ come passare tre giorni in un piccolo albergo sperduto nella meravigliosa Cappadocia ( durata del film 196 minuti ). Con silenzi, pause, momenti immobili in cui si riesce quasi a sentire la caduta della neve, il caldo di un tè, il freddo dell’inverno, e si scoprono sentimenti sopiti se non nascosti tra distacco emotivo e impotenza esistenziale. Film ormai raro per i nostri circuiti, dai rimandi al grande romanzo russo, tra Turgenev e Tolstoj, e i cui personaggi sembrano usciti dalla penna di Cecov. Tra Zio Vania e il Giardino dei Ciliegi. Il protagonista, Aydin, ( il bravo attore di teatro Haluk Bilginer – un misto tra Ben Gazzarra e Gianni Santuccio, anche nel modo di recitare ) può ricordare il professor Serebrijakov e Vanja allo stesso tempo; sua moglie, Nihal, bella e giovane ma fragile e pigra, sembra Elena; e la sorella di lui, Necia, ci appare come una Sonia più cinica e annoiata. E verso la fine del film si va verso una tempesta come alla fine del primo atto di Zio Vanja. Nei protagonisti c’è un finto bisogno di valori ( o ci si nasconde in modo raffinato nei valori attraverso luoghi comuni e difese fragili ), vogliono difendere le proprio sicurezze proprio per non far crollare il castello di bugie su cui hanno stanziato esistenze e fallimenti. E il luogo quasi fiabesco ( una Cappadocia che ci rimanda ai Sassi di Matera ) sembra nascondere una tragedia che in realtà è già avvenuta.
Siamo in un villaggio sperduto dell’Anatolia, si va verso l’inverno. Tra antiche abitazioni che formano con la roccia un tutt’uno scenografico, tra povera gente che sopravvive come può, mullah che sorridono sempre ma disperati perché non riscono a pagare i debiti, bambini che crescono nella durezza della vita e nel rancore, gente che passa il tempo a bere ed altri che non si fanno più domande, vive in modo agiato Aydin, un ex attore sessantenne, proprietario di un piccolo ma fascinoso albergo, l’Othello: ha deciso di nascondersi al mondo in questo luogo duro in cui è nato e si accontenta di scrivere articoli per un modesto giornale di provincia e si documenta per scrivere un libro sul teatro turco. L’uomo è anche il padrone di parecchie case i cui inquilini non sempre possono pagare l’affitto e allora – non lui direttamente che sembra apparentemente indifferente e bonario – ma un suo collaboratore e i suoi avvocati minacciano di sfratto i morosi e sequestrano televisori o frigoriferi. Aydin vive con la giovane moglie Nihal e con la sorella Necla che ha divorziato dal marito ( ma forse si è pentita di ciò che ha fatto ) e si è venuta anche lei a nascondere qui. I tre protagonisti sembrano gentili, apparentemente bonari, ma in realtà hanno rinunciato alle fatiche della vita e covano in modo differente rabbia e paura di vivere. Aydin, al di là dei sorrisi e dei modi affabili, ha un carattere duro, dominante e in fondo detesta il mondo; sua moglie Nihal ( una brava ed essenziale Melisa Sozen), forse appena trentenne, non ama più suo marito, è stanca del luogo in cui è finita ma non ha il coraggio di scrollarsi di dosso una vita confortevole e ritornare a Istanbul, trascorre il tempo in opere di bene, cercando di risrutturare le scuole locali malmesse, ma in realtà tenta di ritagliarsi uno spazio fuori del dominio oppressivo di Aydin e riempire il tempo vuoto; la sorella di Aydin, Necla ( Demet Akba ), vive annoiandosi, passando il tempo a leggere, a bere tè e a criticare ferocemente e con ipocrita freddezza il fratello e ciò che scrive. Tra una cena assieme, una chiacchierata con gli ultimi turisti di passaggio e qualche amico che passa a trovarli, i tre si confrontano con fredda lucidità e con egoismo fino a scontrarsi con lunghi dialoghi e discussioni che a volte raggiungono toni duri. Sembra tutto fermo, quasi una danza immobile, ed invece Aydin sta cambiando e scopre le sue debolezze e le sue fragilità ed anche Necia, dopo un gesto di stupida generosità andato male, pare accettare i propri limiti.
Non siamo noi a dover dire che il regista Ceylan ( Pluripremiato al Festival di Cannes, ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria nel 2003 per il film Uzak, il premio per la miglior regia nel 2008 per il film Le tre scimmie, nuovamente il Grand Prix Speciale della Giuria nel 2011 per il film C’era una volta in Anatolia e la Palma d’oro per questo Il regno d’inverno – Winter Sleep nel 2014 ) si colloca tra gli autori più importanti della cinematografia mondiale. Riesce a coniugare un Cinema moderno con debiti narrativi che arrivano alla letteratura russa dell’Ottocento e a Shakespeare. Ceylan riesce a fare un film di più di 190 minuti senza creare nello spettatore un attimo di impazienza o di stanchezza, anzi sembrerebbe quasi che si voglia sapere qualcosa in più dei protagonisti. In fondo in tutta la sua cinematografia Ceylan ci dice che quando siamo spaventati o feriti, andiamo a nasconderci e speriamo di cavarcela ignorando la realtà, e questo assunto lo racconta sempre senza mai un gesto moralistico, ma è fatto di amarezza e compassione. In fondo una delle crisi dell’uomo moderno è proprio la difficoltà di amare, di vivere insieme e di accettare il proprio destino.