Con Il regno d’inverno, il film vincitore della Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, Nuri Bilge Ceylan è entrato in quella terra che in C’era una volta in Anatolia percorreva, scavava, illuminava con lo squarcio di un lampo nella notte. La Cappadocia delle colline erbose, delle montagne brulle, dei panorami immensi e delle radici turche è sempre al centro del racconto, ma questa volta è una terra da sondare, da calpestare e conoscere, non più da attraversare e osservare. Il regno d’inverno non è un film in movimento, non è un’indagine o una ricerca: è un film su un mondo sopito, scavato nella roccia e immerso nella sua immobilità, popolato da personaggi tornati alle radici e con esse confusi.
Ci sono un uomo di una sessantina d’anni, la giovane moglie e la sorella; insieme gestiscono un albergo scavato pure lui nella terra, appartamenti scuri e accoglienti ricavati all’interno di grandi guglie di argilla. Istanbul è lontana, il passato dei protagonisti pure: lui è un ex attore riciclatosi giornalista, la moglie una benefattrice annoiata e piena di sensi di colpa, la sorella una ex traduttrice pentitasi di aver scelto la vita di provincia. Il loro presente, però, il loro volontario ritorno alle radici, è sospeso, una vita ovattata tenuta in equilibrio da rapporti di forza bloccati, incastonati come tutto il resto nel suolo. Fuori dall’albergo, nel paese di cui l’uomo e le due donne sono padroni e affittuari, gentili con tutti ma attraverso i loro intermediari pietosi con nessuno, si respira una violenza dettata dallo sfruttamento, dalla povertà, dalla rabbia di chi non può pagare l’affitto e dal disinteresse codardo di chi finge la propria buona coscienza. E tutto resta lì, soffocato, come il respiro del film nella prima parte, chiusa negli interni dell’albergo, attorcigliata attorno a dialoghi senza sbocco, parole pesanti eppure vuote: una precisa scelta stilistica di Ceylan, che rispetto al suo cinema precedente sceglie una scrittura teatrale e letteraria (il film è ispirato a tre novelle di Cechov, che il regista si è ben guardato dallo svelare, ed è ricco di citazioni da Dostoevskij e Shakespeare) per rendere complessi e macchinosi i suoi personaggi, per trasmetterne l’impasse emotiva e umana.
Poi, lentamente, tutto viene fuori: lo spazio, il paesaggio, la neve, l’anima, il cuore. Come nel Passato di Farhadi, a forza di essere ribadita e sfruttata la parola scava nella terra, libera il film dalla propria prigione, rivela nel semplice meccanismo del campo e controcampo una grande potenza espressiva. E i dialoghi teatrali, in sequenze lunghe ed elaborate, dove il protagonista maschile è messo alle strette nella sua ipocrisia dalla sorella o dalla moglie, diventano momenti di verità e svelamento, spezzano relazioni di sangue e sentimenti sbiaditi dal tempo e dall’usura. Le parole si insinuano, cadono leggere come la neve, non portano mai a una vera e propria esplosione – ed è per questo che la sequenza del sasso contro il vetro della macchina, o quella dei soldi bruciati nel fuoco (derivata da una scena analoga dell’Idiota), svettano come momenti straordinari, quasi scioccanti.
Il regno d’inverno è girato quasi tutto in interni illuminati dalle luce fioca delle lampade da tavolo, chiuso in un mondo spietato ma confortevole, una civiltà di illusioni ricavata dalla spaventosa selvatichezza della Cappadocia: vi si consumano la crisi di un matrimonio, la dissoluzione di una famiglia, l’umiliazione di un povero diavolo, e solo al di fuori dell’albergo la natura sembra liberarsi. In una nevicata copiosa, nel fuoco che brucia il denaro, in campi lunghi da film western, in un cavallo lasciato libero, in una rabbia che il protagonista e le sue donne non sanno esprimere, assopiti dalla loro buona coscienza. Una parola, coscienza, come si sente dire alla fine in una citazione dal Riccardo III di Shakespeare, «usata dai codardi/inventata per tenere i forti in soggezione».
Ed è proprio questo, il «sonno d’inverno» del titolo originale del film, la sonnolenza codarda di chi vive immerso nella propria terra e le è estraneo, straniero con se stesso e gli altri. Straniero anche al proprio sguardo, di fronte al panorama spettacolare di un paese innevato in cui si vive, ma al quale non si appartiene.
Lo stupore e il senso del mistero con cui Ceylan in C’era una volta in Anatolia affrontava l’indagine su una morte assurda, su un suicidio così inspiegabile da sembrare un miracolo al contrario, un affronto a Dio e agli uomini, in Il regno d’inverno si sono trasformati nella rassegnazione dolorosa di un gruppo di intellettuali colpevoli ma in fondo impotenti. Anche a livello visivo Ceylan si è fatto più pacato, più classico e forse paludato, ma al tempo stesso più rigoroso, meno ambizioso, sfumato come le tonalità brune e ombreggiate con cui riprende il paesaggio montagnoso in cui ha scelto di incidere le sue figure sconsolate.
E questo perché non c’è niente che si possa fare, niente che si possa cambiare, per evitare che la gente faccia quel che faccia. Nemmeno immergersi nelle proprie radici, nemmeno fuggire da esse; nemmeno raccontare una storia per togliere la maschera a personaggi falliti e fasulli.
Ceylan chiude infatti Il regno d’inverno nel segno inaspettato e forse speranzoso del mélo, con le parole amare di una lettera solo immaginata e mai spedita, incastonando il triste amore fra un uomo e una donna in una forma cinematografica perfetta, capace di liberare i propri tristi eroi dal peso della terra e dal torpore della penombra.
Anche loro, forse, potrebbero diventare come le incisioni rupestri di cui la Cappadocia è disseminata, come le guglie di terra dall’aspetto ancestrale, figure bloccate nello spazio, ma rese bellissime e imperscrutabili da un racconto.