Livorno, 28/30 settembre

Quest’anno l’attenzione de Il Senso del ridicolo è rivolta alla comicità milanese, attraverso proiezioni e incontri. Sabato 29 settembre, alle 17.15, il festival ospiterà una conversazione fra il direttore artistico Stefano Bartezzaghi, Sandro Paté (studioso di Enzo Jannacci e biografo di Guido Nicheli, il «Dogui» delle commedie milanesi), Marco Ardemagni e altri ospiti, per ripercorrere storia e caratteri di un umorismo che, soprattutto a cavallo fra gli anni ’60 e i ’70, ha fatto scuola nel cabaret, nella televisione e al cinema.
È difficile (o facilissimo) ricostruire un albero genealogico della comicità milanese, quella che, per semplicità, porta l’etichetta del Derby Club (una palazzina liberty in via Monte Rosa 84, tra corso Sempione e San Siro, per chi non è pratico).

 

Delio Tessa.

 

Il lievito dell’umorismo impasta la letteratura milanese. Per tacere dell’ironia manzoniana, bisogna almeno ricordare i due grandi poeti che scrivono in dialetto: la commedia umana di Carlo Porta e quella, più in minore, di Delio Tessa. È però una ricerca che ha il rischio di sortire gli stessi risultati di chi si rivolge a un esperto di araldica: un antenato che ha combattuto in Terra Santa, a cercar bene, salta sempre fuori. E, a proposito di crociati, vengono in mente le strofette che si sentivano in casa:

 

Passa un giorno, passa l’altro, 

mai non torna il prode Anselmo, 

perché era molto scaltro, 

partì in guerra e mise l’elmo.

 

La partenza del crociato è opera del milanesissimo Giovanni Visconti Venosta, patriota risorgimentale di nobile famiglia e fratello di un noto ministro degli Esteri di fine Ottocento. E chi non ricorda i versi del Pierino Porcospino?

 

O che schifo quel bambino!

È Pierino il Porcospino. 

Egli ha unghie smisurate, 

che non furon mai tagliate. 

I capelli sulla testa, 

gli han formato una foresta. 

Densa, nera, puzzolente. 

Dice a lui tutta la gente: 

O che schifo quel bambino! 

È Pierino il Porcospino.

 

La traduzione hoepliana del terribile Der Struwwelpeter è di Gaetano Negri, sindaco della Milano fin de siècle e poi deputato. In attesa che Beppe Sala si cimenti in simili prodezze (i cui risvolti social risultano per ora incalcolabili), quel che preme è segnalare che è nelle corde della città un controcanto umoristico che si prende gioco delle prodezze dei campioni del lavoro, “degli eroi del lunedì mattina” (Luca Doninelli). Così non è difficile trovare, nei cassetti di stimati professionisti del mondo di ieri, strofette umoristiche, scherzi e caricature di una società che corrisponde, più o meno, a quella che entra con slancio positivistico nel Novecento, descritta mirabilmente nell’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda (a proposito di umoristi).

 

Vittorio Caprioli, Luciano Salce e Franca Valeri ai tempi de I Gobbi.

 

Il mondo di ieri si infrange con la fine degli anni Cinquanta, quando i confini della città si allargano, le classi sociali si mescolano e si affaccia una nuova generazione di adolescenti, figli della società di massa, attratti dalla cultura pop americana. Il solo esempio italiano fuori dalla tradizione a cui questi giovani in cerca di qualcosa di nuovo potrebbero guardare, è il cabaret nostrano, che nasce colto, su esempi parigini, e ha i suoi massimi interpreti nel Teatro dei Gobbi di Franca Valeri, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci (poi sostituito da Luciano Salce), a cui si possono aggiungere i testi umoristici di Billa Zanuso. Più a portata di mano è il trio Dario Fo-Franco Parenti-Giustino Durano, che, tra commedie (Il dito nell’occhio) al Piccolo Teatro e sketch radiofonici nella sede RAI di corso Sempione, fanno circolare una nuova comicità surreale, più legata alla situazione e al costume che alla battuta. Aperti e innovativi, Piccolo Teatro e RAI milanese rappresentano un traguardo ambito anche se un po’ condizionante: nel 1962 Fo deve lasciare la RAI dopo un episodio di censura e da lì comincia la sua carriera di autore “impegnato”.

 

A partire dagli anni del boom economico, la notte milanese è il rovescio del giorno. Le ore notturne propongono una nuova geografia, non più intorno alla Scala, ai teatri e qualche ristorante e pizzeria (Santa Lucia) del centro. Alla religione del lavoro si contrappone quella del tirar mattina“, per citare il titolo del romanzo di Umberto Simonetta, uno dei padri della nuova comicità milanese. Ci sono locali come il Santa Tecla, dove si affacciano i giovanissimi rockettari di casa nostra, e il Derby di Gianni e Angela Bongiovanni, che comincia con i concerti di jazz e musica leggera, per poi declinare verso il cabaret.

 

Enzo Jannacci e Dario Fo.

 

La nuova comicità milanese nasce dall’intreccio fra musica e parole, fra teatro e canzone. Sono ironici i testi dei Gufi (Nanni Svampa, Gianni Magni, Lino Patruno e Roberto Brivio), scrive canzoni Dario Fo, che incontra Enzo Jannacci attorno al 1963. L’anno prima Jannacci ha scritto qualche testo in dialetto per lo spettacolo Milanin Milanon, antologia della cultura popolare milanese rivisitata da Filippo Crivelli, con Tino Carraro e Milly. È Jannacci, valorizzato da Nanni Ricordi, il vero padre fondatore della nuova comicità milanese. Tuttora amatissimo, è una figura che deve essere ancora studiata a fondo – e non solo testimoniata – per comprendere un genio che ha una formazione musicale classica (diploma di Conservatorio) a cui aggiunge il jazz e il rock ‘n’ roll. I suoi testi possono essere in lingua o in dialetto, con una vena poetica dove prevale un tono malinconico (il magone, il rimpianto di cose sognate o vissute a metà), che si mescola a un umorismo surreale, a volte acre, ma sempre dalla parte degli ultimi, di chi fatica a stare al passo con la Milano del boom. Carlo Lizzani, che aveva fatto debuttare Dario Fo come attore protagonista ne Lo svitato (1956), una commedia che costeggia il nonsense, si accorge del fenomeno Jannacci e lo infila ne La vita agra (1964), tratto dal romanzo omonimo di Luciano Bianciardi che è “il” libro sulla Milano di quegli anni.

 

Jannacci ha anche doti comiche eccelse, una mimica mobilissima, e sul palco si muove a scatti stando in scena, per così dire, sempre un po’ di sbieco. Giorgio Gaber può essergli paragonato per tanti aspetti, ma gli mancano quell’irruenza e quella vis comica che attraggono invece i giovani Cochi (Ponzoni) & Renato (Pozzetto) e il giornalista RAI e autore Beppe Viola, con i quali Jannacci costituisce il primo nucleo della nuova comicità milanese. La base operativa, “l’ufficio facce”, è il bar Gattullo, a Porta Ludovica, un punto di osservazione della sempre rinnovata commedia umana milanese, dove ora sono arrivati tanti meridionali (il titolo di un film di Mariano Laurenti del 1982, a riprova di un’integrazione più o meno riuscita, suona così: Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi). Qualche anno dopo, attorno al 1980, Diego Abatantuono, nipote dei Bongiovanni, ha un successo breve ma intensissimo col personaggio del “terrunciello” (forse “scippato” a Giorgio Porcaro), il meridionale che ha introiettato una milanesità posticcia (aggettivo che si immagina pronunciato col suo inconfondibile accento). Non bisogna dimenticare però che Abatantuono, attraverso la collaborazione con Gabriele Salvatores, diventa anche il punto d’unione coll’umorismo più eversivo di Paolo Rossi, a sua volta “figlioccio” di Dario Fo: tutto si tiene, insomma.

 

Cochi e Renato.

 

Il successo della nuova comicità milanese è sancito da una trasmissione pomeridiana della RAI, Quelli della domenica, scritta da Italo Terzoli, Enrico Vaime e dal veterano Marcello Marchesi: nell’anno della contestazione, Jannacci, Cochi & Renato e un dirompente Paolo Villaggio scatenano un vero e proprio ’68 sul piccolo schermo. A questo primo nucleo si aggiungono poi Massimo Boldi e Teo Teocoli, che conosceranno la massima gloria alcuni anni dopo con le infinite dirette su Antenna 3, una delle prime tv private locali, insieme al mitico Ossario (al secolo Armando Celso); e il Gruppo Repellente, di cui fanno parte, oltre ad Abatantuono, Boldi e Porcaro, anche Mauro Di Francesco, Giorgio Faletti e il povero Ernst Thole, morto prematuramente, che sfruttava a fini umoristici la sua aria effemminata. Ma vanno ricordati anche autori relativamente “minori” come Felice Andreasi, coi suoi monologhi comici a metà fra Ionesco e Beckett, o come Walter Valdi che, con aria impiegatizia, canta, assorto e insieme spensierato, La büsa növa e Vacaputanga.

 

Il Derby chiude i battenti nel 1984: siamo già ai tempi di Drive In, che istituzionalizza e rende popolare questa comicità, ma non la rinnova. Così come lo Zelig (nato nel 1986), palcoscenico di tanti nuovi comici, che arrivano da tutta Italia. Contano di più gli impresari Antonio Ricci e Gino e Michele, ma l’ultimo soffio di libertà arriva da Antonio Albanese e dal trio Aldo Giovanni e Giacomo, dove gli effetti comici migliori sono nel recupero delle origini meridionali (Aldo Baglio e la sua comicità corporale; i personaggi di Frengo e Alex Drastico di Albanese). I figli della grande migrazione degli anni Sessanta hanno modificato la comicità meneghina, parodiando l’efficientismo di facciata, il “Ghe Pensi Mì” (vi viene in mente qualcuno?), facendola diventare qualcosa di diverso, ma sempre, in qualche modo, milanese.

 

L’ultima parola però spetta a un milanese nato ad Abbiategrasso, Walter Fontana, autore dei testi di tanti comici nell’ultimo (argh!) quarto di secolo. Un bambino “presuntuoso e saccente” (un futuro cumenda?) viene interrogato dalla maestra: “Ma tu credi in Dio?”. “Be’, credere è una parola grossa. Diciamo che lo stimo”.

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