Il senso di una vita immaginata, Nulla die edizione
di Gabriele Ottaviani
Nell’ultimo giorno che trascorremmo a Parigi, mio padre si svegliò di cattivo umore. Mi salutò appena, non rispose quando gli feci una domanda, stava per scendere a colazione senza aspettarmi. Lo chiamai dalla soglia della stanza mentre era immobile davanti alle porte chiuse dell’ascensore; si voltò, ma il suo viso non comunicava nulla. Proprio nulla! Quando ci sedemmo a fare colazione io mangiai il cornetto in silenzio guardando solo il tavolo, avevo timore di guardarlo, lui bevve tre caffè. Sembrava avvertisse una nausea fisica, ma non doveva essere l’esito di un peccato del vivere, tantomeno la conseguenza di un comportamento deliberatamente scelto. Sul suo viso traspariva uno stupore, come se tutti i sentimenti si fossero prosciugati e quello che rimaneva era la sola conoscenza della vita, il suo ricordo senza particolari emozioni. Uscimmo dall’albergo e iniziammo a camminare senza una meta. Mio padre era così chiuso in sé da evitare di guardarsi intorno, penso che mi avesse emotivamente dimenticato anche un po’. In quei momenti niente gli avrebbe dato sollievo, né incontrare un amico né ricevere una bella notizia tantomeno andare a sbattere contro una bella donna. Superammo Place Colette, era vuota, sembrava più ampia e noi più piccoli. Attraversammo tutta rue Saint Honoré, il vento freddo smuoveva tutto e giungeva un odore di plastica, gas di scarico di auto e di cibo fritto. Girammo per rue Royale, chissà perché qui si sentiva l’autunno in tutta la sua malinconia, trasudava dagli alberi, dagli angoli umidi, dalle sedie dei caffè ancora raccolte una sull’altra lungo il marciapiede. Giungemmo ad Avenue des Champs Elysées, muovendoci come due astronauti appena usciti dalla navicella spaziale. La percorremmo tutta nonostante un vento gelido ci schiaffeggiasse e il nevischio sul terreno che ci faceva slittare. Non ho mai visto Parigi così desolata, più che deserta era nuda.
Il senso di una vita immaginata, Domenico Astuti, Nulla die. Stefano è figlio di suo padre. Con cui, figura sfuggente e molteplice, piena di senso e di inquietudine, finalmente, dopo aver per tutta la vita brancolato tentando di sovrapporre le proprie orme a quelle del genitore, di viaggio in viaggio, di passione in passione, di ossessione in ossessione, di dolore in dolore, di gioia in gioia, aprendo brecce nei muri che ha messo tra sé e il mondo per proteggersi confrontandosi con la diversità, è, cinquantenne, arrivato alla necessità di riconciliarsi. È a Parigi – città dove l’autore, che si è laureato in filosofia e si vede lontano un miglio leggendo la sua dottissima e assai raffinata prosa, in cui c’è tutta la concezione bergsoniana del tempo e anche quella nietzschiana della famiglia al suo apice, ha vissuto – per scrivere un romanzo sull’uomo di cui eterna i geni. E le miserie. E… Costruito come un flusso di coscienza, è un suadente apologo sull’amore e la libertà.
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