La vicenda aperta il 7 ottobre 2023 ha riaperto la questione israelo-palestinese in modo sempre più tragico, suscitando confronti e riflessioni accese e, come prevedibile, conflittuali. In questi mesi sono usciti molti libri che provano ad approfondire e a chiarire i problemi e i differenti punti di vista. Tre mi sembrano rilevanti: Che cosa teme Israele dalla Palestina? di Raja Shehadeh, Il suicidio di Israele di Anna Foa e Questa terra è nostra da sempre di Arturo Marzano.
Raja Shehadeh, nella parte conclusiva della sua riflessione-orazione sul futuro dei palestinesi, afferma che “lasciare gli Stati Uniti come unico garante della situazione mediorientale e dei possibili negoziati tra israeliani e palestinesi ne assicurerà il fallimento”. L’unica soluzione, a suo parere, è coinvolgere “altri garanti forti, compresi le Nazioni Unite e il Sud globale e discutere tutte le questioni in sospeso: il pieno riconoscimento di uno Stato palestinese, i rifugiati, il rilascio dei prigionieri, le future relazioni tra Israele e Palestina”.
Diversa e molto più pessimista è Anna Foa che nel suo Il suicidio di Israele, osserva come la scena a cui stiamo assistendo da 12 mesi sia l’effetto di una decisione politica maturata dalla leadership israeliana di governo il cui fine è abbandonare il progetto di coabitazione e insistere su una strada politica in cui non si dà offerta politica verso i palestinesi, ma solo dominio, previa espulsione o «pulizia etnica» dei territori. Un profilo che si fa strada e acquisisce forza politica con la progressiva espansione del fondamentalismo ebraico in Israele, contro il quale, come ricorda Anna Foa, Amos Oz aveva chiamato a riflettere con molta preoccupazione negli ultimi anni della sua vita (in particolare ricordo Contro il fanatismo e Cari fanatici)
Un progetto o forse più propriamente «il sogno», che, peraltro, Otzma Yehudit di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza, non ha mai negato o smentito. Simmetricamente il progetto politico di Hamas, al di là di alcune dichiarazioni fumose e solo tattiche pronunciate nel 2017, ha lo stesso profilo (è significativo il testo dell’articolo 22 della sua Carta costitutiva varata nell’agosto 1988, in cui si afferma la vecchia e consolidata tesi complottista e antisemita dei Protocolli dei Savi anziani di Sion. Chi avesse dubbi può controllare e verificare qui, leggendo il testo letterale dell’articolo 22).
Al di là delle differenze che comunque per certi aspetti rappresentano percorsi speculari – Raja Shehadeh narra una storia lunga almeno cento anni dal punto di vista palestinese, Anna Foa segue un percorso di riflessione che sostanzialmente si svolge nella stessa porzione di tempo, privilegiando l’angolo di visuale dentro il contesto israeliano – sia Che cosa teme Israele dalla Palestina?, sia Il suicidio di Israele, consentono di cogliere l’autocoscienza e le inquietudini, le insoddisfazioni e le delusioni di ciascuna delle due parti in campo.
Per questo costituiscono uno strumento importante per tentare di affrontare il nodo israelo-palestinese. Ovvero rappresentano un modo efficace per prendere consapevolezza dell’agenda politica, culturale ed emozionale di ciascuna delle due parti in conflitto.
Un tratto della loro efficacia consiste anche nel fatto che ciascuno dei due libri proprio perché entrambi volti a illustrare la percezione di una delle due parti coinvolte rispetto all’altra, è dato dal fatto che quella scelta consegna al lettore un menù di questioni che costituiscono l’agenda politica di ciascuno dei due contendenti.
Questo tratto, proprio perché trattato con efficacia, chiede anche che si abbia uno sguardo sopra ciascuna delle due parti che consenta di fare il punto di un confronto e di un conflitto che – essendo osservati con sguardo partigiano, per quanto inquieto e aperto – rischiano di rimanere delle narrazioni dei vissuti e non anche una storia dei nodi non risolti che ciascuna delle due parti evitano sistematicamente di affrontare.
A questo snodo che personalmente considero strutturale quanto la capacità di ciascuno dei due attori di raccontare la propria autobiografia con impianto critico e autocritico – e dunque non giustificativo dei propri limiti – risponde con una ricostruzione documentata il libro di Arturo Marzano Questa terra è nostra da sempre un libro che non è solo una utile piattaforma illustrativa dei problemi al tempo presente, ma anche una guida indispensabile per costruire una storia della condizione – mentale, politica, culturale,… – a cui siamo giunti ora. Un testo, peraltro corredato da una ricchissima bibliografia molto utile per tutti coloro che volessero per davvero saperne di più.
L’obiettivo del libro di Arturo Marzano, come precisa nelle conclusioni, è duplice; uscire dagli schieramenti e soprattutto non offrire certezze. Per questo il libro non è la ricostruzione di come è andata la storia, ma illustra gli snodi fondamentali del discorso pubblico – che Marzano riconosce in 10 temi strutturali – spacciato per opinione informata, sostenuta da una presunta documentazione storica sufficiente. Dieci capitoli in cui Marzano scava e rimette al loro posto tante idee preconcette diffuse come verità incontrovertibili. E lo fa proponendo con pazienza una ricostruzione storica che non parteggia per l’uno o per l’altro, ma tirando fuori ogni volta i nodi irrisolti, che spesso sono la raffigurazione dei luoghi comuni che affollano la scena.
Nell’ordine questi sono i 10 temi che segnano la struttura del libro: 1. La Palestina era una terra vuota? 2. Il sionismo è un movimento coloniale? 3. Il mandato inglese (1910-1947) è stato imparziale? 4. Nel 1948 e nel 1967 l’obiettivo dei paesi arabi era distruggere Israele? 5. Gli arabi e i palestinesi ha sempre perso l’opportunità di pace? 6. I sionisti sono i nuovi nazisti? 7. Israele è la sola democrazia del Medio Oriente? 8. Hamas e ISIS sono la stessa cosa? 9. L’antisionismo e l’antisemitismo si equivalgono? 10. La sostanza del conflitto è un odio atavico?
Tra tutte questi interrogativi ne scelgo tre che mi sembrano essenziali per capire i temi al tempo presente e illustrativi del profilo riflessivo proposto da Marzano.
Il primo riguarda il problema del sionismo come un movimento coloniale.
La risposta che fornisce Marzano è: dipende. Dipende dalle fasi storiche e dipende dalle forze politiche dominanti. Marzano propone una distinzione per fasi, la prima delle quali accompagna il primo processo di insediamento, soprattutto tra anni ’20 e anni ’40, in cui ci sono più esperienze di colonizzazione, caratterizzate da una parte da forme di investimento che punta a un processo di cooperazione con gli arabi presenti; e dall’altra da un processo di settler colonialism (letteralmente: colonialismo di insediamento) che a differenza del colonialismo classico non ambisce a sfruttare le risorse e la manodopera delle colonie, ma intende sostituire l’economia e a a sostituirsi alla popolazione indigena. Un processo, quest’ultimo, che è diventato immersivo soprattutto nel tempo aperto dalla espansione della presenza, dopo il 1967, nei territori occupati di Cisgiordania. Questa linea si accompagna a una interpretazione del colonialismo che distingue tra un programma che ha dietro di sé una potenza statale, e che dunque in questo caso tenderebbe a raffigurare il periodo prestatale e quello dei primi venti anni dell’esistenza di Israele (1948-1967) come non coloniale, mentre nel tempo successivo, proprio perché sostenuto da un investimento dello Stato, saremmo di fronte a un progetto coloniale di tipo classico.
La seconda questione riguarda la domanda se Hamas e ISIS sono la stessa cosa.
Originariamente no: la linea di Hamas è non è quella di creare un’élite che assume la direzione politica come un partito di avanguardie che chiedono il sostegno del popolo e allo stesso tempo si propongono come struttura gerarchica di comando. È invece, quella di dare vita a un movimento neotradizionalista dal basso, secondo una linea di tradizione che richiama l’esperienza e la pratica della Fratellanza musulmana.
Detto questo, osserva Marzano, la conseguenza non è che «dal basso» significhi che quel movimento ha caratteristiche democratiche. La sua struttura e la sua linea di operatività sono quelle di un controllo autoritario del territorio e, soprattutto, dell’amministrazione della vita quotidiana dei governati. Un profilo che tende ad avvicinare le forme di governo sul territorio proprie di Hamas a quelle, per esempio, proprie di tutte le esperienze di controllo mafioso che caratterizzano alcune aree del nostro Paese (Scampia, per esempio). In quel caso, contestando la struttura corrotta dell’area politica di ANP, ovvero di ciò che oggi resta di Fatah, la struttura di governo e di controllo non presume un consenso politico, ma un consenso estorto o “obbligato”, che ha dalla sua la critica al sistema corrotto rappresentato dal potere che governa a Ramallah. Hamas, in sintesi, legittima la sua forza di persuasione non perché «amico», bensì perché «padrone» che non dà spazio agli avversari.
Infine c’è la questione se la sostanza del conflitto è un odio atavico.
Marzano, riportando vari esempi, dimostra come un processo di avvicinamento, di amicizia e di cooperazione abbia caratterizzato, certo con gruppi di minoranza e con momenti alti e bassi, tutta la storia del ‘900 giungendo al nostro tempo presente: una storia che spesso si muove in direzione «ostinata e contraria», ma che periodicamente – in alcuni momenti producendo esperienze di vita comune, in altri proponendo azioni di cooperazione volte a smantellare sia il principio colonialista che quello etnico da entrambe le parti, nel tentativo, mai maggioritario, ma comunque mai abbandonato e sempre presente –, prova a rendere operativa una coabitazione. Un lavoro di Sisifo, indubbiamente, ma non per questo impossibile né irrealizzabile.
In altre parole, Arturo Marzano fa lo storico, avendo come obiettivo quello di fornire una ricostruzione che illustri al lettore come su ciascuno dei temi affrontati si sia costruito un luogo comune che, invece di rendere comprensibile la storia e illustrare i nodi che ancora oggi stanno al centro di quella partita, li ha ulteriormente irrigiditi, facendoli diventare dei postulati. Ovvero un processo di discussione pubblica e di costruzione di informazione orientata che anziché contribuire alla risoluzione del conflitto lo ha irrigidito fino al punto di renderlo agli occhi dell’opinione pubblica irrisolvibile. Meglio: eterno.
Uno strumento davvero utile per provare a voltare pagina.