Danio Manfredini è considerato un punto di riferimento per almeno un paio di generazioni di teatranti “senza padri”, che hanno trovato una sorta di fratello maggiore, di punta avanzata a cui riferirsi, nella sua arte dell’attore e nel percorso difforme e personalissimo che Danio ha intrapreso, tra spazi occupati, laboratori con i disabili psichici e radicalità creativa. Oggi che questa sua capacità maieutica viene riconosciuta, con l’affidamento della direzione dell’Accademia d’arte drammatica del Teatro Bellini di Napoli per il triennio 2013-2016, lo abbiamo incontrato per parlare con lui del suo teatro e di cosa vuol dire trasmettere i saperi della recitazione.
Che impronta darai alla tua direzione dell’Accademia?
Che impronta darò? Per me l’approccio è sempre “poco canonico”. Ci saranno le materie tecniche che si studiano in accademia e io nell’insegnamento mi rifarò comunque alla consapevolezza delle convenzioni del teatro. Ma il teatro resta un’arte incerta, anche per me che la pratico. C’è una base di conoscenza, ma quella non risolve i problemi creativi. La conoscenza è un bagaglio necessario per avere gli strumenti adatti, ma è solo il punto di partenza. Il teatro è una forma di apprendimento. E per me è una forma di apprendimento anche l’insegnare.
Nei seminari ci sarà ovviamente il training fisico, vocale e sensoriale. Ma anche lo studio del repertorio teatrale, sia classico che contemporaneo. I testi. Per incamerare delle strutture drammaturgiche elaborate nell’opera scritta e comprendere come queste – sulla scena – chiedano una ulteriore ossatura di drammaturgia scenica. Parto da lì perché nel repertorio ci sono basi strutturali solide, che sono ciò che manca di solito alle proposte autorali che gli attori fanno durante i seminari. Arriveremo fino agli autori degli anni Novanta, perché mi sembra che dopo Koltès e Sarah Kane ci sia meno complessità nelle drammaturgie sceniche.
Per cui la tua modalità di insegnamento non è quella verticistica del metodo ma quella orizzontale dell’incontro?
Sì, assolutamente. Incontro un artista che è in viaggio. Io non ho le soluzioni dei problemi. Se ho fortuna trovo delle soluzioni. Di solito non scelgo neanche io su cosa lavorare, ma chiedo agli allievi di scegliere dal repertorio. Parto da qualcosa che non sappiamo e da lì si cercano soluzioni – che è l’allenamento per la creazione. Quando lavori su un pezzo da creare non sai mai come far emergere la materia. L’unico modo è starci addosso, frequentarla, praticarla e, quando intuisci qualche elemento buono, approfondirla. Solo così emerge la materia creativa e poi magari arrivi a creare l’opera. Io parto sempre da un non sapere. Il che è anche una condizione imbarazzante, perché gli attori alle volte si aspettano che io arrivi e dica “fai questo”, “fai quello”. Io invece non dico mai cosa fare, dico iniziamo a lavorare e poi… vediamo. Quando si accendono degli elementi me ne accorgo e certo di farli sviluppare, tutto qui.
Non parto con tesi o pratiche precostituite. Non c’è un metodo. Per me c’è una larga conoscenza che si può approfondire su vari piani: tutta la conoscenza che abbiamo non solo dell’arte, ma della vita, ci può venire in aiuto per trovare una chiave d’entrata in una scena e dargli forma. Non sono neanche dell’idea che si debba lavorare sul sistema della competizione. Ogni essere umano ha una sua qualità specifica che va approfondita, capita e sviluppata nel tempo. Dire che uno è più bravo degli atri è qualcosa di poco utile alla creazione teatrale.
Anche il tuo teatro è senza manifesto?
Mi interessa frequentare il meno conosciuto – non dico il “non conosciuto” in assoluto, ma ciò che è meno visibile. Per questo faccio fatica a dire cosa è il Teatro e cosa non è. Per me è una gran fatica inserirmi nei dibattiti del tipo “naturalismo sì, naturalismo no”. La mia risposta è quasi sempre: dipende… Io posso rispondere solo sui dettagli, non sulle teorie generali. Nell’osservazione di un dettaglio scenico si può arrivare a una presa di posizione, funzionale a quello che stai facendo. Quella va assolutamente presa, perché la creazione ti mette ogni volta davanti a un bivio: vado a destra o vado a sinistra? Lì devi scegliere, non puoi stare nel mezzo. Perché se non scegli rimani in quella “indefinizione” che viene detta “libera” che però, per me, scava poco nel solco. E scavare nel solco è ciò che l’attore deve fare.
L’unica cosa “generale” che posso dire è che a volte si confonde la spettacolarità con il teatro, che invece per me sono due cose diverse. I fuochi d’artificio, ad esempio, possono essere un bellissimo spettacolo ma non sono teatro. Allo stesso modo ci sono messe in scena molto spettacolari ma non necessariamente teatrali. E quando dico “teatrali” intendo che siano in grado di sollevare dei sentimenti. Una sorpresa, un incanto, un particolare stato d’animo. Il teatro per me va a collocarsi in quella zona dell’arte che smuove un dentro.
Di recente hai lavorato su Amleto, dopo molte produzioni scritte da te. Che opportunità rappresentano per te i classici?
Li ho frequentati nei laboratori per almeno 15 anni senza mai metterli in scena. Quando ho provato ho scelto uno dei più complessi e difficili. È stato il confronto con una montagna sacra. Sono soddisfatto di quello che è uscito, anche se non l’ha comprato nessuno, purtroppo. Non sapevo nemmeno perché mi andavo ad infilare in un percorso simile. Solo alla fine ho capito qual era l’elemento che mi ha spinto ad avvicinarmi, che è uno dei suoi nodi drammatici fondamentali: il passaggio di un uomo da una propensione benevola nei confronti degli altri a una disposizione arrabbiata, malevola, violenta. Come si passa dal bene al male, non solo interiore ma anche esteriore, fino all’assassinio. Era un tema che riguarda ogni uomo e che sicuramente riguardava me e anche gli altri che hanno fatto Amleto con me. L’Amleto è stata un’avventura al limite dell’assurdo per me, fino a quel debutto “terremotato” allo Storchi di Modena, con sole 30 persone poste vicine alle uscite di sicurezza, a causa del sisma che ha colpito l’Emilia nel 2012.
Quali sono i tuoi riferimenti fuori dal teatro? Penso alla pittura, che torna più volte nel tuo percorso, ad esempio nel titolo dei “Tre studi per una crocifissione”.
La pittura mi aiuta a sintetizzare. Quando una scena funziona, sono in grado di dipingerla, anche con uno schizzo su un quaderno. Quando non funziona, faccio fatica a disegnarla. I miei riferimenti più appassionanti, sia per la loro pittura che per i loro scritti, sono Francis Bacon e Alberto Giacometti. Per me è stato importante il loro sguardo nelle opere ma anche, ad esempio, le interviste di Bacon raccolte ne “La brutalità delle cose”, o “Riga”, un libro dove Giacometti parla del suo approccio artistico. Sono tanti i pittori che mi hanno accompagnato nel corso degli anni. Ho condotto per 12 anni un laboratorio di pittura per i disabili psichiatrici e guardare i cataloghi dei pittori era una delle cose che si facevano prima di arrivare a dipingere concretamente. Tra i prediletti c’erano Van Gogh, Monet, Pizarro, Picasso, Cezanne. Gli impressionisti sono quelli che hanno dato il marchio più forte a quell’esperienza.
Ma la pittura c’entra anche con le maschere che abbiamo creato per l’Amleto, per le quali ci siamo ispirati ai quadri del Seicento e del Settecento, da Rembrant a Rubens. La composizione scenica dell’Amleto, che si rifaceva a un linguaggio meno naturalistico proprio per l’uso della maschera, ha risentito molto delle composizioni pittoriche nella disposizione dello spazio scenico. Il riverbero della pittura è molto forte nel mio lavoro.
E per quanto riguarda la musica?
Con la musica è ancora diverso. La ascolto poco nella vita e molto mentre lavoro, nei laboratori. Perché è un motore che accende uno stato di coscienza particolare, in grado di far sbocciare la visione scenica. Per questo posso passare dai più grandi ai meno conosciuti, da un genere all’altro: da Bach ai Pink Floyd, da Damien Rice a Beth Gibbons, da Vivaldi a Nick Drake, da Chopin a Janis Joplin. Conosco meno la musica contemporanea e quella colta.
Queste musiche come entrano concretamente nei tuoi lavori?
A volte non entrano affatto. Posso mandare in maniera ossessiva una stessa musica anche per tre giorni, mentre costruiamo una scena. Ma questo non vuol dire usarla in scena. È successo con la scena conclusiva dell’Amleto, che ho costruito mentre ascoltavo in modo ossessivo un brano degli Afterhours, “Metamorfosi”. Quella musica ha dato forma all’ultimo quadro, la Passione di Gesù, dove Amleto diventa uno dei ladroni e Laerte l’altro ladrone. Perché tutto lo spettacolo è una deformazione della percezione di Amleto. Ma nello spettacolo definitivo di quella musica non c’è traccia.
Secondo te oggi, rispetto a uno o due decenni fa, in teatro si rischia meno sul terreno dell’incontro con le altre arti?
Io continuo a infilarmi in quella strada. I primi segni del lavoro che sto appena improntando, che si intitola “Vocazione”, mi lasciano intuire che i vari linguaggi artistici per me continuano a parlarsi molto. A contaminarsi. Dall’immagine, al testo, alla danza, alla prosa. Sono tutti elementi di uno stesso linguaggio che deve dare forma a delle espressioni che non sempre scelgono la stessa disciplina per esprimersi. Certo, negli ultimi anni ci sono stati molti monologhi anche per ragioni economiche, che si concentrano sull’attore. Molti di questi monologhi poi si sono improntati al teatro di narrazione, che si è concentrato su alcuni elementi impoverendo altri aspetti della scena. Io non ho una passione per la narrazione, lo dico francamente, per la stessa ragione per cui non riesco a leggere romanzi, ma solo saggistica e poesia: la mia è una mente che fa fatica con il nudo racconto. Credo che il racconto sia un asse debole perché non è un asse drammatico. La narrazione ha reso meno drammatico il teatro. Per me, invece, è importante tornare a una drammatizzazione del teatro. Ovviamente non parlo in assoluto, ma per quanto riguarda il mio gusto personale.
Quali sono stati, ai tuoi esordi, gli spettacoli e gli artisti teatrali che ti hanno colpito di più?
Sicuramente “La classe morta” di Kantor. È stato il primo spettacolo che ho visto. Quando vidi quello spettacolo pensai “se questo è il teatro è una bomba”. Purtroppo non è stato così, nel corso degli anni, perché io a teatro mi sono annoiato molto. Ho visto tutti i lavori di Kator, che per me resta un riferimento imprescindibile assieme a Pina Bausch. Poi ne sono venuti altri, chiaramente, come le influenze del terzo teatro di Grotowski e Barba – c’è stato anche il mio lavoro con Iben Nagel Rasmussen. Ma li prendo più come stimoli formativi. Se invece parliamo di imprinting poetico, per me le gradi stelle che hanno attraversato il teatro sono Tadeusz Kantor e Pina Bausch.
Il tuo prossimo lavoro si chiama “Vocazione”. La vocazione di Danio Manfredini da dove nasce?
Non sono assolutamente uno che da piccolo “voleva fare il teatro”. Lo facevo a scuola e per me era un’ansia terribile. Capitò per caso che il giorno del mio diciottesimo compleanno bussò alla porta di casa mia una persona: era César Brie che vendeva libri sul teatro. Vivevo a Cerchiate di Pero, nell’hinterland di Milano, un posto dove è davvero difficile capitare per caso. Comprai il libro e iniziai a frequentare il suo laboratorio teatrale. Sono abbastanza d’accordo con l’affermazione di Minetti nel “Ritratto dell’artista da vecchio” di Thomas Bernard, secondo cui il teatro è una vocazione. Ma è una vocazione che si costruisce un po’ alla volta, si approfondisce nel tempo, non è qualcosa che si ha da subito e in modo definito. Il teatro è una modalità di esperienza che ti permette di vivere la vita in maniera anche più amplificata di quello che la vita stessa ti può offrire. Nel tempo cresce un’affezione rispetto a questa capacità che il teatro ha di aprire delle porte, degli stati d’animo, delle condizioni mentali che molto spesso la vita non ti permette di esplorare. Nella vita, se le esplori, poi non hai più una via di ritorno. Invece nel teatro hai la possibilità di esplorarli e tornare indietro. Puoi esplorare l’assassinio senza per forza uccidere. Ti permette di ascoltare non solo la tua vita, ma anche le vite delle persone che abbiamo intorno, e di farne esperienza e capire che cosa significa avere quel tipo di destino. Però poi c’è il ritorno al sé. È un’opportunità di conoscenza straordinaria.
Qualche giorno fa l’attore, regista e cantante Danio Manfredini ha vinto il Premio Ubu alla carriera. Pubblichiamo la versione integrale di un’intervista di Graziano Graziani uscita sul numero di dicembre dei Quaderni del Teatro di Roma