L’incantevole mattina del febbraio 1970 in cui Marc Rothko si uccise, dopo una terribile depressione che minava da tempo la sua voglia di vivere, New York si era svegliata con una temperatura finalmente mite, come un annuncio dell’imminente primavera. Oliver Steindecker, il giovane assistente di Rothko che ne aveva scoperto per primo il corpo nel suo studio sulla 69esima, rincasando lungo la Broadway notò che i cartelloni pubblicitari di Times Square avevano cambiato marca di sigarette, e il fatto lo rattristò come se l’incessante e vasto universo cominciasse già ad allontanarsi da lui, e quel mutamento fosse solo il primo d’una serie infinita.

Eppure tutto era cominciato molto in sordina ai primi del secolo, nella remota Dvinsk, una piccola città della Russia zarista (oggi in Lettonia) ai margini di ogni discorso culturale e artistico. Appartenendo alla comunità ebraica del posto, bersaglio di pogrom sempre più brutali e frequenti, Jacob Rothkovski, il padre di Marc, decise di emigrare a Portland alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per raggiungere due suoi fratelli che gestivano un’avviata fabbrica di indumenti.

La trasferta in Oregon ebbe successo, ma poco dopo aver riunito tutta la famiglia Jacob morì di un tumore all’intestino, e moglie e figli dovettero inventarsi qualcosa per sbarcare il lunario. Nonostante le difficoltà d’inserimento e le ristrettezze economiche, Marc fu uno studente modello, apprese in fretta l’inglese e nel ’21 si diplomò con lode alla Lincoln High School. Grazie ai buoni voti ottenne una borsa di studio per Yale, dove s’iscrisse a lettere, ma non vi rimase a lungo a causa dei pregiudizi antisemiti che circolavano nel campus. Ironia della sorte, quella stessa università che lo emarginò fino a fargli abbandonare gli studi, molti anni dopo gli avrebbe conferito la laurea honoris causa. Trasferitosi a New York, nella patria dei senza patria, Marc scoprì la sua vocazione. Pare che tutto avvenne per caso, accompagnando un amico alla Arts Students’ League dove assistette a una lezione di nudo e pronunciò la fatidica frase: “Questa è la passione della mia vita!”.

In realtà, dopo quell’agnizione i dubbi su cosa fare da grande non sparirono subito. Rothko iniziò a dipingere mentre coltivava velleità attoriali, e per un po’ fece la spola tra la Grande Mela e Portland. La sua prima fase pittorica realista, che va dal ‘24 al ‘40, denunciava parecchie irrisolutezze formali, in particolare nella resa delle figure umane. Ciononostante, anche in quelle prove acerbe si nota come i preziosi insegnamenti di Max Weber, il celebre artista di cui era allievo, gli siano rimasti impressi e abbiano contribuito al raggiungimento della sua maturità espressiva; come l’idea del potere emozionale dell’arte, intesa più come rivelazione che rappresentazione, e quella del rapporto privilegiato tra opera e osservatore.

A ripercorrere le tappe principali della sua parabola umana e artistica si ha l’impressione di un falso movimento, come un lungo e lento venir meno, un desiderio di fuga che però da sé non procede e a sé non arriva. Nel ’28 la Opportunity Gallery – nome azzeccatissimo – gli propone di esordire in un’esposizione collettiva assieme a Milton Avery e Adolph Gottlieb, e l’anno successivo una scuola di Brooklyn gli affida l’incarico d’insegnare disegno ai bambini, lavoro che manterrà e lo manterrà per vent’anni. Grazie alla tranquillità di questo impiego nel ’32 si sposerà con Edith Sachar, una disegnatrice di gioielli con cui condivise un’esaltante e gravosa bohème.

Quindi l’arrivo della sospirata cittadinanza americana, proprio mentre in Europa si scatenava la persecuzione degli ebrei, e infine il cambio del nome, abbreviato da Rothkowitz a Rothko, come se si fosse amputato la parte spensierata di sé, il proverbiale witz. Convenzionalmente, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si data l’avvio della sua pittura più consapevole, la fase simbolico surrealista praticata con Gottlieb sotto l’influenza di De Chirico e delle letture di Freud e Jung. In quel periodo Marc ed Edith si divisero. Lei non resse il peso del suo insuccesso e delle sue recriminazioni, poi era molto presa dalla sua attività che stava ingranando, e a cui voleva che Marc partecipasse invece d’inseguire vani sogni di gloria.

La separazione lo fece cadere in depressione, ma poco dopo, come per contrappasso, Rothko conobbe Peggy Guggenheim, che acquistò alcuni quadri per la sua neonata galleria Art of this Century. Alla fine del conflitto Peggy organizzerà la sua prima personale, ma senza l’esito sperato. Poche opere vendute, ma soprattutto l’onta dei critici che lo ignorarono, non ritenendolo meritevole neanche di una stroncatura. Eppure è senz’altro questa la svolta della sua carriera, quando abbandona la figurazione e comincia a dipingere i multiforms, le macchie cromatiche biomorfe che sono gli antesignani della sua arte più celebrata. A convincerlo di aver imboccato la strada giusta ci pensò la presenza affettuosa di Mary Alice Beistle detta Mell, una giovane illustratrice di cui s’innamorò e che lo venerava come artista. Il nuovo amore gli portò fortuna: nel ‘46 due musei californiani esposero i suoi multiforms,  e l’anno successivo la gallerista Betty Parsons lo mise sotto contratto.

Ma è nel ’49 che Rothko “si trova”, aderendo a sé stesso senza sforzi e infingimenti, come il primo taglio di Lucio Fontana, o la prima volta che Giacometti giraffizza. Le macchie informi in questi anni si riducono a delle campiture rettangolari più nette, con contrasti cromatici di grande tensione e luminosità, come Orange, red, yellow, battuto da Christie’s nel 2012 per 86,9 milioni. A spingere ancor più verso “uno spazio ossessionato da sé stesso, senza contesto, senza contenuto, senza appello”, come osservò Emilio Villa, concorre un viaggio in Europa compiuto grazie all’eredità della madre di Mell. È una specie di Grand Tour che tocca Inghilterra, Francia e Italia, e che evita accuratamente la sua terra natale, sentita come estranea e irrilevante. A Firenze Marc visita il convento di San Marco e s’innamora del Beato Angelico: la luce sovrannaturale e il senso di pace e di raccoglimento che trasmettono i suoi affreschi informeranno tutte le sue opere successive.

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A metà degli anni Cinquanta la sua situazione economica si stabilizza. Lascia Betty Parsons e firma un accordo più vantaggioso con Sidney Janis, la gallerista che rappresenta Jackson Pollock e Franz Kline. Nel ’58 è invitato alla Biennale di Venezia,  e la rivista Fortune lo definisce un investimento promettente. Da allora comincia ad adoperare una tavolozza più cupa, come i rossi e i marroni di quella vertiginosa interrogazione del vuoto che sono i Seagram Mural. In questa serie di quadri commissionatigli dal ristorante Four Season le campiture cromatiche sono verticali, per assecondare l’architettura che doveva ospitarli, ma quei quadri in quel ristorante non ci arriveranno mai. Pare infatti che, andandovi una sera a mangiare con la moglie, Rothko rimase disgustato dalla pretenziosità dell’ambiente, che trovò pacchiano e immorale, e scelse di stracciare il contratto e restituire l’acconto. Al termine, quelle opere già realizzate finirono sparse per il mondo: nove alla Tate, altre in Giappone ed altre ancora a Washington. Gli anni Sessanta furono per Marc ricchi di soddisfazioni ma non privi di angoscia. Nel ’61 fu invitato da John F. Kennedy ai festeggiamenti per l’elezione a Presidente, e a sessant’anni gli nacque il figlio Christopher Hall, ma il riconoscimento universale lo disorientava profondamente, come di qualcosa su cui aveva perso il controllo, evidentemente intuendo quanto si scoprì solo dopo la sua morte, cioè che il favoloso contratto stipulato con la Marlborough Gallery di Frank Lloyd era in realtà una truffa.

Ma il progetto di tutta una vita, il suo testamento artistico che lo impegnò fino all’ultimo respiro, fu la Rothko Chapel di Houston, voluta da una coppia di magnati francesi, John e Dominique de Menil.  La cappella era lo spazio ideale che aveva sempre sognato, senza la mescolanza con altri artisti, che ai suoi occhi faceva somigliare le visite ai musei a delle prove di degustazione vini. E poi amava il suo spirito ecumenico, una cappella interconfessionale inclusiva, aperta a tutte le fedi, tanto che negli anni Ottanta fu uno dei pochi luoghi sacri in Texas a celebrare i funerali dei morti di AIDS. Ma ciò che Rothko amava di più era il controllo totale su tutta l’opera, compresa la parte strutturale affidata all’architetto Philip Johnson, sulla quale però lui avrebbe sempre avuto l’ultima parola.

E così la pianta ottagonale rimanda a un battistero, ma presenta anche la solennità di un sacrario, di un mausoleo, non a caso fu inaugurato postumo.  Dentro vi sono appesi quattordici enormi pannelli (come le stazioni della via crucis) color prugna su sfondo marrone, ai limiti del monocromo, di cui un gruppo di sei riuniti in due trittici sui lati est e ovest. Secondo gli accordi presi con la proprietà, l’allestimento dei quadri doveva essere curato personalmente dall’artista, ma dopo l’aneurisma all’aorta che lo colpì nell’aprile ’68 Marc dovette rinunciarvi. In ogni caso, l’esecuzione dei dipinti fu portata avanti nel grande studio sulla 69esima, che era una rimessa di carrozze ottocentesca con il lucernario a soffitto, perché l’interno era sufficientemente alto e ampio da potervi riprodurre il modello architettonico di Houston.

La luce soffusa filtrata dall’oculus centrale del soffitto si riversava nell’ottagono come in un catino, riverberandosi sui pannelli e diffondendo un’atmosfera zen che invitava lo spettatore al raccoglimento e all’introspezione. Il libro dei visitatori posto all’entrata conserva molte testimonianze turbate, come racconta James Elkins in Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro (Bruno Mondadori).  C’è chi prova un senso di vertigine e di apnea, e usa il verbo “trasalire”, e chi è colpito da una specie di trance emotiva, restando immobile per ore sulla panca. Più o meno tutti provano un’istantanea, inesprimibile folgorazione, a cui segue una lenta, penosa e incompleta decifrazione. L’effetto era voluto. Per Rothko “un quadro prende vita negli occhi di un osservatore sensibile”, e la reazione del pianto e della vertigine lo avvicina al momento della creazione, lo mette in comunione con l’opera. Perché nell’espressionismo astratto la figura scompare ma il dramma umano resta centrale, e la cappella di Houston, col suo silenzio ruvido e la radicale intransigenza del suo aspetto disadorno, sembra “che non sia stata edificata per mostrare qualcosa al mondo, bensì per celare al suo interno un mondo tutto suo”, come scrive Alessandro Carrera ne Il colore del buio (Il Mulino).

Nel dicembre ’69, ormai malato e solo per la separazione da Mell, Rothko diede un party nel suo studio per presentare i suoi ultimi dipinti della serie Black on Grey, che considerava i più audaci che avesse mai fatto. Lastscape, li definì l’amico Brian O’Doherty, paesaggi terminali, ultimi orizzonti che il guardo esclude, come una premonizione di morte. Robert Motherwell invece racconta che Marc occupò per tutto il tempo il centro dello studio senza aprir bocca e con lo sguardo perso dietro le spesse lenti, mentre sulle note del Don Giovanni di Mozart intorno a lui ruotavano gli invitati come i fedeli della Mecca. Il poeta del silenzio tacque anche sui motivi del suo suicidio, quando due mesi dopo si tagliò le vene e ingerì una confezione di barbiturici senza lasciare alcun biglietto. Alla festa scambiò qualche parola solo con Katharine Kuh al momento dei saluti.

Lei, vedendolo sofferente per la separazione, lo invitò a riprovarci, ma Rothko rispose laconico: “starebbero tutti meglio se io uscissi dalle loro vite”. Forse lui non intese il suo suicidio come un abbandono dei propri cari, ma come un sacrificio necessario per la loro serenità: togliersi la vita nel senso di togliere il disturbo. Ma si sbagliava. Sei mesi dopo Marc morì anche l’heavy drinker Mell, la sua seconda moglie, per un infarto a soli 48 anni, lasciando una figlia appena maggiorenne e un figlio di 7 anni. Come riferì la figlia Kate in un’intervista al Guardian, al funerale della madre parteciparono dieci persone, mentre a quello del padre c’era tutto il gotha del mondo dell’arte americano, tanto che qualcuno lo definì “Il miglior vernissage della stagione”.

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