Diario di un viaggio
Percorrendo la strada che dall’aeroporto porta in città si coglie l’essenza di Ulan Bataar, capitale della Mongolia. Ai bordi della strada, enormi cartelloni pubblicizzano l’ultima stampante laser e il telefonino all’ultima moda. Sotto questi cartelloni uomini in abito tradizionale pascolano il bestiame. Fuoristrada moderni sfrecciano di fronte alle porte di capanni di legno. Giovani universitari vestiti in maniera occidentale e uomini in abito tradizionale si affollano su filobus scassati. Sul cielo blu si stagliano le ciminiere delle centrali elettriche, dietro al loro denso fumo, dietro le case, dietro i condomini s’intravedono le colline, punteggiate da migliaia di fittissime gher, le tradizionali tende dei nomadi.
Due mondi di ricchezza e povertà che hanno un netto confine, non sembrano esserci vie di mezzo, nessuna sfumatura. Siamo ansiosi di lasciare il caos della città per andare a vedere l’altra faccia del paese, i grandi spazi, dove il passato di questa terra è ancora vivo. Rimontiamo le biciclette, le carichiamo di bagagli e provviste. Lentamente un treno ci porta, in una notte senza luci, al confine con la Siberia. Quello stesso confine attraverso cui i russi negli anni ’20 arrivarono per occupare il paese. Il nostro viaggio in bicicletta comincia così al confine Nord, quello con la Russia. L’idea è di attraversare il paese da Nord a Sud fino a raggiungere l’unico altro confine quello con la Cina.
Suhkbataar è il villaggio da cui partiamo. E’ ancora addormentato mentre alle prime luci dell’alba iniziamo a pedalare prima tra gli steccati che cingono gher e vecchi edifici in muratura, poi tra gli alberi della taiga. Ci aspettano rettilinei di decine di chilometri, ore e ore sempre dritti su una strada progettata con la riga in un paese dove tra un villaggio e l’altro non c’è null’altro che natura. I giorni passano sulla strada, poi all’improvviso gli alberi finiscono e il nostro cammino procede tra verdi colline punteggiate del bianco di lontane gher. Ogni sera cerchiamo un luogo dove riparare la tenda e passare la notte. Alcuni giorni incontriamo un villaggio. Il disagio che proviamo nei villaggi è forte. La povertà è diffusa, gli edifici sono in stato di abbandono, i cani randagi schivano uomini ubriachi che barcollano sui marciapiedi polverosi. E’ difficile comprare qualcosa in negozi che non hanno l’aspetto di negozi, trovati interpretando i gesti di mongoli che al più parlano un po’ di russo. Come si esce dai villaggi l’unico scenario per molti chilometri è la natura incontaminata, percorsa da solitari cavalieri.
Cavalli, pecore e yak pascolano senza confini. Passano i giorni e movendoci verso sud la vegetazione cambia. Gli alberi sono ormai un ricordo lontano, i giorni scorsi i pendii avevano sfumature di velluto, per l’erba alta, gialla per l’autunno alle porte.
Solo il Sole, la bussola e la ferrovia ci confermano che ci muoviamo nella direzione giusta: sud sud est è la nostra rotta, in questo oceano di steppa. Trenta gradi di escursione tra il giorno e la notte ci permettono di dormire al fresco e allo stesso tempo ci sgonfiano le gomme. Ci addentriamo nel deserto di Gobi che sembra voler proteggere i sui confini con arbusti bellissimi, dal legno che sembra di oro e spine che ci costringono a numerose riparazioni. Il vento decide di giorno in giorno quanti chilometri possiamo fare, il vento ci asciuga e l’acqua diventa sempre più importante.
Spesso accanto ai villaggi ci sono delle cittadine di condomini abbandonati. Sono le abitazioni in cui stavano i russi. Vere e proprie città divenute fantasma quando gli abitanti sono tornati nel loro paese, una traccia di cemento forse lasciata a monito del passato potere. I mongoli sono nomadi, la loro cultura è quella dello spazio aperto e degli animali. E’ questa cultura che permette di vivere in una natura tanto severa. Chi vive nella steppa mangia montone, beve latte di giumenta. Quando fuori ci sono quaranta gradi sottozero lo sterco di yak permette di scaldare la tenda. Quando la stagione cambia i cammelli trasportano la gher e le poche altre cose.
Il nostro lento procedere continua, la steppa lascia spazio al deserto, ora intorno a noi solo sabbia e sassi. I pendii diventano sempre più morbidi, fino a scomparire.
Dopo alcune settimane di strada si profila all’orizzonte Zamin Uud l’ultimo villaggio. Ci fermiamo a guardarlo da lontano, vicino alle ossa di un cavallo che non è sopravvissuto al deserto ormai alle nostre spalle. E’ la fine della Mongolia, oltre il villaggio la Cina. Ci guardiamo: siamo bruciati dal sole e coperti dalla polvere del deserto che da due settimane non laviamo. Siamo svuotati di energie dalla fatica, asciugati dal vento. Eppure dentro ci sentiamo tutt’altro che vuoti, arricchiti da un viaggio che ha segnato non solo la nostra pelle. Un sonno ristoratore ci accompagna verso una mattina dal cielo cupo per l’arrivo di una tempesta di sabbia nella quale faticosamente raggiungiamo il treno che ci riporterà a Ulan Bataar. Ci resta ancora il tempo di vedere la capitale tra la confusione e gli odori del mercato, i colori dei monasteri e il caos del traffico impazzito.