Abbiamo visto “ In un mondo migliore “ diretto da Susanne Bier.
Susanne Bier è nata nella terra di Boezio di Dacia e Søren Kierkegaard, ha studiato arte all’Università Ebraica di Gerusalemme, quando è diventata regista è entrata nel gruppo di Dogma 95 fondato da Lars von Trier ( Dogma: l’ultima corrente cinematografica mondiale – ormai sciolta – che teorizzava la ‘ purificazione ‘ del Cinema da quello ipercommerciale, e quindi inquadrature con la macchina da presa a mano, niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora e basso budget – In realtà, la base teorica era una specie di Neorealismo Italiano e Nouvelle Vague in salsa danese. Ha prodotto film capolavoro come “ Festen “, “ Idioti “, “ Mifune “, “ Lovers “, “ Dogville “, tra i vari ). Tutta questa premessa è necessaria per capire il magma filosofico-esistenziale, la base della sua ricerca attraverso l’immagine e “ lo stile “ originario e originale di una delle registe più importanti del panorama cinematografico mondiale. Il suo scavare, indagare sui profitti sentimentali privati, sulla scia di von Trier, di Haneke, di Agnieszka Holland. Nei suoi film ci sono le domande del mondo, quando il mondo si faceva queste domande, che sembrano tracimare dal pensiero kierkegaardiano; riflessioni sull’esistenza del singolo che non si può ricondurre a una unità sistemica sovraindividuale; che bisogna avere coerenza tra parola e azione, che la condizione esistenziale degli esserei umani è segnata dall’angoscia e dal fallimento, che la disperazione nasce da un rapporto profondo dell’uomo con se stesso, che l’angoscia di cui ci si nutre è per la constatazione di essere inadeguati. Una grande regista dal taglio “ minimale “ che tuttavia ha delle imperfezioni evidenti come il mettere “ troppa carne a cuocere “ e consegnarci dei finali a volte troppo elducorati e ottimisti ( è il caso de “ Dopo il matrimonio “, ma anche di quest’ultimo “ In un mondo migliore “ – entrambi cercano il confronto tra il nostro mondo e quello del Terzo mondo e provano ad approfondirli anche individualmente ).
Susanne Bier si è diplomata nel 1987 alla Scuola Nazionale di Cinema di Copenaghen; dopo alcuni videoclip, nel 1991 ha girato il suo primo lungometraggio “Freud Living Home “ ( Nella famiglia ebrea Cohen, i tre figli ritornano per festeggiare il compleanno della madre ). Il suo secondo film è “ Affari di famiglia “ ( 1994 ) ( un ragazzo orfano si mette alla ricerca dei veri genitori scomparsi in Portogallo ). L’anno successivo gira “ Pensione Oskar “ ( all’interno di una coppia si inserisce un circense omosessuale che corteggia il tranquillo padre di famiglia e riesce a conquistarlo facendogli scoprire la bisessualità e rompendo l’idea di famiglia classica ). Poi con la nascita del manifesto Dogma inizia a sperimentare nuove strade, prima con il thriller “ Credo “, poi con “ Den Eneste Ene “. Con il successo ottenuto in patria realizza “ Una volta nella vita “. Inizia a questo punto a seguire fedelmente le regole di Dogma con il film “ Open Hearts “ . E giunge la distribuzione dei suoi film in Europa e nel mondo con “ Non desiderare la donna d’altri “ ( titolo che rimanda a Kieslowski e non solo nel titolo – una storia di due fratelli, uno sbandato e l’altro militare, che dovranno fare i conti con quello che gli prospetta la vita ). E’ giunge nel 2006 “ Dopo il matrimonio “ un film che potrebbe essere definito un melodramma se lo stile del film non si imponesse sulla storia ( Un uomo che vive da anni negli slum indiani per aiutare i bambini diseredati viene chiamato in Danimarca da un mecenate per un eventuale finanziamento e scopre che la moglie del ricco uomo d’affari non è altro che la sua antica donna e che la loro figlia, che deve sposarsi in quei giorni, è sua figlia di cui non sapeva l’esistenza ). Questo film non vince l’Oscar ( è l’anno de “ La vita degli altri “ ) ma le dà la possibilità di girare un film negli Stati Uniti: “ Noi due sconosciuti “ con Halle Berry e Benicio Del Toro ( Una signora borghese, a cui viene ucciso il marito perché ha difeso una donna da un’aggressione deve affrontare il dolore della perdita e decide di accogliere in casa un amico del marito, tossicodipendente. I due instaureranno un rapporto che li migliorerà come persone ). Nel 2010 ha realizzato “ In un mondo migliore “ un film che ha ottenuto al Festival di Roma il Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio e il Premio del pubblico, ed è candidato, per la Danimarca, al premio Oscar come miglior film straniero. E’ una radiografia sulla violenza nel mondo e sul condizionamento che crea nei comportamenti umani sia nei luoghi di sofferenza e sfruttamento sia in quei Paesi che risultano il migliore dei mondi possibili.
Il film inizia in un campo profughi africano, Anton ( un ottimo e misurato Mikael Persbrandt ) è un medico che cura come può le vittime civili di una delle tante guerre tribali; vita faticosa ma che all’uomo soddisfa e soprattutto lo tiene lontano da una moglie che ha tradito e che non lo perdona di quella delusione. Passiamo a Londra, dove si svolge il funerale della madre di Christian – un ragazzino che sembra già un uomo, che trattiene le emozioni dentro di sè e sembra non perdonare il padre e il mondo – ed è il ragazzo che tiene la commemorazione funebre, Con il genitore si trasferisce in Danimarca, a casa della nonna. Nella ennesima scuola in cui va conosce Elias, un coetaneo timido, perseguitato dai compagni più grandi. I due ragazzi diventano amici, ma come è naturale uno comanda e l’altro è sottomesso, insieme diventano complici e si avviano, per situazioni contingenti, verso la violenza e “ il male “ nonostante abbiano dei genitori colti, civili e presenti. Anton – che va e viene dall’Africa – ritorna ma è costretto dalla moglie a vivere in un’altra casa, ma si vedono spesso perché lui ama i suoi due figli e prova a dare degli insegnamenti di vita soprattutto a Elias il più grande. In questa Danimarca civile, pulita e tranquilla, alcuni ragazzi sono dei bulli, i docenti degli inadeguati conformisti privi di personalità, alcuni adulti non riescono ad esprimersi e la violenza entra in scena – in modo un po’ didascalico, ma efficace – con un coatto, e naturalmente stupido meccanico, che schiaffeggia Anton davanti ai ragazzini senza motivo e il dottore non reagisce creando un sommovimento emotivo in Christian e Elias che vorrebbero una reazione. Anton convinto del suo atteggiamento cerca di spiegare ai ragazzi che la violenza non serve e che anzi il suo atteggiamento ha messo in evidenza l’inutilità della sopraffazione. Ma i due ragazzini non sono convinti e decidono di vendicarsi. Ma Anton, ritornato in Africa, si ritrova davanti ad una altra violenza e questa volta in un sussulto di stanchezza non porgerà l’altra guancia.
E’ efficace, oltre che interessante, il discorso che la Bier fa sul dolore e lo fa collocandolo in tutte le fasce d’età, in vari ceti sociali e in luoghi lontani tra loro. Sceglie un taglio coinvolgente senza imporre verità e nel discorso sulla violenza sceglie la semplicità del quotidiano minimo e senza clamori. Tuttavia tematiche così “ alte “ non dovrebbero essere motivate e se lo si vuole per forza non in modo così ‘ buonista ‘ e prevedibile ( la morte di una madre crea rancore e odio – il non saper comunicare crea lacerazioni in famiglia – Per sintesi diciamo che lo stesso tema è stato sviluppato in modo più coerente e forte da Haneke con “ Il nastro Bianco “ o da von Trier con “ Dogville “ senza citare Kubrick e la sua idea sulla violenza ). L’unico clichè che si doveva evitare sono le scene dei bambini africani sorridenti e felici che sembrano una macchia di colore in un film “ in bianco e nero “. Infine, come abbiamo già accennato, il finale anche se coerente è un po’ troppo elducorato. Sembra che dopo l’analisi lucida, quasi clinica, il finle sia alla happy end: e vissero tutti sereni e contenti.
Il cast di attori è perfetto, bravi e convincenti Mikael Persbrandt ( Anton ), Trine Dyrholm, ( la moglie ), Ulrich Thomsen, ( il padre di Christian ) ma soprattutto – in quanto al loro primo film, i ragazzini Markus Rygaard e William Johnk Nielsen.