A quel tempo (1968) si stava qualche settimana in guerra (in Vietnam) e poi alcuni giorni di “R and R” (rest and recreation, riposo e svago, per giornalisti e soldati). C’era appena stata l’offensiva del Tet (ricordate, i Viet Cong avevano raggiunto il prato intorno all’ambasciata americana e sembravano in grado di occupare tutta Saigon). Io, con la macchina da presa e il coraggio di Franco Lazzaretti, avevo appena filmato “I bambini di Bien Hoa”, ovvero che cosa succede ai bambini, casa per casa, quartiere per quartiere, durante una simile offensiva. Di solito per lo “R and R” si andava in Thailandia (China Beach), ma quella volta sono andato in India, a New Dehli, all’Hotel Ashoka, che a quel tempo era il massimo.
È stato lì, nel salone d’ingresso, dove ti ricevevano portieri vestiti da maharaja, che ho visto Mia Farrow. È stata lei, a quel tempo in fuga da Frank Sinatra per i continui litigi sulla guerra nel Vietnam (lui sì, lei no), a dirmi che i Beatles erano arrivati, e anche Mike Love, dei Beach Boys, e anche Donovan, e che si andava tutti a Rishikesh, alle pendici dell’Himalaya, nel punto in cui dalla roccia sgorga il Gange, per meditare sotto la guida del Maharishi Mahesh Yogy.
Un prezioso tappeto, davanti al “ricevimento” è cosparso di bagagli con etichette del mondo e adesivi di bandierine inglesi abbandonati come per una emergenza. Sono ostacoli evitati con eleganza da due gruppi di famiglie allargate, eleganti come comparse di un grande film in costume, con i gesti e le parole sussurrate di un copione che è certamente il rituale inflessibile. La loro cerimonia comincia adesso e durerà tutta la notte. Ricordo il colore oro dei sari, e gli occhi delle ragazze giovani intorno alla giovanissima sposa. Tutte sanno e sono in attesa.
Eccoli i Beatles, più ragazzi di quello che credi, più spavaldi, ma quasi solo perché felici. Si lasciano presentare, ammiccano qualche inchino, si muovono con una certa grazia che qualcuno a quel tempo descriveva “femminea”, ma stringono la mano con la forza dei vicoli di Liverpool. Adesso sono i tre moschettieri che avanzano tra la folla di giovanissime ragazze e bambine di tutti i colori della festa matrimoniale (anziani e giovani uomini si tengono più indietro, le mani giunte in segno di saluto, tutti, mi sembra, senza fiato per la sorpresa di quell’inaspettato dono di nozze.
Ho detto tre, ma sono quattro i Beatles, naturalmente, Ringo restava sempre un po’ più indietro come se fosse (ma non era vero) meno divo e meno celebre. E gli piacevano poco le nuove amicizie.
Io sono qui perché il Maharishi mi vuole, vecchia amicizia dai tempi delle arrampicate tra gli ashram del Gange alla ricerca (anche allora per un documentario) degli “Ultimi discepoli di Gandhi”. Sono qui perché Mia Farrow, fin da New York, mi aveva parlato, a condizione di tenere il segreto, di questa spedizione dei Beatles. Non ricordo un momento in cui si sia votato un sì o no, per la mia presenza. John Lennon, che avevo visto a Londra alle lezioni di Luciano Berio, apre subito il vero dibattito: come si va all’Ashram (luogo santo) alle sorgenti del Gange?. Io ho la risposta: si va in treno. Avrò la prima mondiale dei Beatles nel mezzo dell’India, della folla, dei treni stracarichi, del più esuberante e colorato caos del mondo.
La soluzione porta il problema. Io sono una troupe televisiva, con un cameraman come Lazzaretti, che con una sola telecamera a mano fa un film. E con il tecnico del suono. Vi rendete conto? Il tecnico del suono insieme al gruppo musicale più celebre al mondo. A quel tempo i Beatles, l’uno o l’altro, o due di loro o tutti insieme, non smettevano mai di tentare, provare, verificare un’idea musicale. “Un tecnico del suono è come una spia ufficiale al Cremlino” sentenzia John Lennon (non sapendo che tempi simili sarebbero davvero arrivati). Propongo una soluzione. Il tecnico del suono viaggia su un altro vagone e registra i suoni della vita (treno, grida, persone, preghiere) che useremo come colonna sonora del viaggio.
L’idea va bene ma non va bene il treno. A quel tempo sono otto ore di treni allo sbando, poi una corriera, poi il posto di blocco delle scimmie ladre, poi il ponte di corde sospeso sulla sorgente del Gange.
Perdo un punto importante perché la decisione (per cui si batte più Ringo che Mia Farrow) è l’elicottero. Noi (la troupe tv) andremo in treno, perché ci serve vedere e filmare l’India che i Beatles non vedono. Otteniamo una promessa. Ci aspetteranno al cancello dell’Ashram con le chitarre e con il Maharishi, la scena che serve per l’apertura del film.
I momenti adatti al documentario della nostra avventura in treno ci sono tutti: antichi vagoni con la folla aggrappata all’esterno, da una parte e dall’altra, e i più giovani sul tetto. Il treno si ferma senza ragione in mezzo a una pianura desolata dove una immensa folla si sparge come se sapesse dove andare, tutti con bagagli sulla testa o sulle spalle e una tranquilla pazienza, la fortuna di un camion che ci prende a bordo ma viene fermato a un posto di blocco militare dove i cartelli avvertono, anche in inglese, “zona infestata dal colera”.
L’epidemia ci viene spiegata e ripetuta. Ma poiché il camionista decide di proseguire, restiamo con lui. Ci lascia a un chilometro o due dal ponte di corde. È il territorio delle scimmie ladre e bisogna rifornirle di tutto il cibo che ci resta e di monete (buttano via subito le banconote e tornano ad assediarti abbracciandosi alle gambe e frugandoti le tasche).
E finalmente siamo all’Ashram, dove, come promesso, i Beatles, una volta avvertiti dai guardiani che ci trattengono in attesa di fronte al cancello chiuso, arrivano cantando “Oh when the Saints go marching in”, intorno al Maharishi. Tre Beatles, non quattro, John Lennon davanti. Ringo, come si vede nel film, saluta svogliatamente dal fondo. C’è Mia Farrow, c’è Love, conoscenza americana e presenza in altri documentari filmati in California, c’è Donovan, festoso e amichevole, benché mai incontrato prima. Gli Ashram sono luoghi di preghiera e di ascetica privazione. E se ne vedono tanti , bianchi e silenziosi sulle pendici ripide della montagna. Non questo. Qui si vive bene, si mangia bene, i pomeriggi al Gange sono sempre da registrare (la musica) e da filmare (la luce indimenticabile).
Con una sola nostalgia, rivedendo il film adesso, e ripensandoci: la tv italiana a quel tempo filmava solo in bianco e nero. Il protagonista è stato sempre John Lennon, a cui interessava e piaceva parlare di Berio, di musica contemporanea, di musica d’opera (una sua passione mai rivelata, ma qualcosa ha cantato nel film). Paul McCartney era il più pronto allo scherzo goliardico, e niente a lui, meditazione o non meditazione, sembrava serio. George Harrison rispondeva quasi solo con la chitarra. Spuntavano qua e là motivi di nuove canzoni che ci saranno nel disco successivo, White Album. Donovan ce ne ha donate due per intero, lasciandoci liberi di usarle nel film.
Il Maharishi, un omino simpatico e orgoglioso del suo successo, si aggirava tra noi per assicurarsi che il film sarebbe stato un buon documento del suo modo di meditare e di far meditare i grandi e i celebri, dunque i ricchi. Dopo Rishikesh, ho rivisto McCartney molte volte a New York. La sua casa agli Hamptons, dove giocava freneticamente a tennis (o meglio la casa del celebre avvocato Eastland, padre della moglie Linda) confinava con la casa degli amici che ci ospitavano, e che di frequente accettavano di incrociare le sfide a tennis.
Mia Farrow non ha mai perdonato chi ha dato anche solo l’impressione di stare dalla parte di Woody Allen dopo il celebre divorzio. John Lennon, forse autore e poeta tra i più importanti (lui e Bob Dylan) del Novecento, è stato ucciso da un certo Chapman davanti al portone della celebre e sinistra Dakota House dove lui abitava con Yoko Ono a New York (Central Park West e 72ma strada, la stessa casa in cui Roman Polansky aveva girato Rosemarie’s Baby, protagonista Mia Farrow) la sera dell’8 dicembre 1980. Da allora, se sono in città, vado, come tanti newyorkesi, quel giorno e quell’ora, allo Strawberry Fields Field Memorial del Central Park.