Nato nel Lower East Side di Manhattan da padre di Messina, Jake LaMotta in verità si chiamava Giacobbe, fu uno dei grandi interpreti del pugilato: incassava e colpiva, con sprezzante potenza. In carriera, vinse 83 incontri, fu vinto 19 volte, conquistò, nel 1949, a Detroit, il titolo dei pesi medi. Mitologica la rivalità tra l’italoamericano e Sugar Ray Robinson, riassunta nell’incontro del 14 febbraio del 1951, “Il massacro di San Valentino”: al Chicago Stadium, dopo 13 sfiancati riprese, vinse “Sugar”. Sulla vita di LaMotta – soprattutto, sulla sua brutalità, sulla prodigiosa caduta – Martin Scorsese, quarant’anni fa, gira quello che per molti è il suo film più bello, “Toro scatenato”. Mezzo insuccesso al botteghino, il film incassò otto candidature agli Oscar; una statua andò a Robert De Niro, autore di una interpretazione di magnetica potenza. Il bianco&nero del film scava il vuoto ovunque, lo scova anche in noi, ci precipita in una leggenda capovolta.
Di solito c’è la tendenza – praticata anche dal più acuto dei critici – a giudicare un film dalla riuscita dei personaggi. Un “personaggio improbabile” appare spesso nelle recensioni che si scagliano contro un film. Un problema, certo, in una commedia romantica in cui vorresti soffocare entrambi i protagonisti più che goderti il lieto fine.
Pochi cineasti si sono dedicati a testare la pazienza del proprio spettatore come Martin Scorsese. Da Taxi Driver a The Wolf of Wall Street, da Re per una notte a Quei bravi ragazzi, il suo cinema si è specializzato in figure di antieroi, tanto difficili da amare come da dimenticare. Anche nelle storie più convenzionali, complica le cose: Cape Fear rompe il confine consueto vittima-carnefice, in equilibrio tra l’assassino psicotico Robert De Niro e il padre di famiglia corrotto Nick Nolte; in L’età dell’innocenza non sappiamo per chi parteggiare in un triangolo amoroso che comprende personaggi diversamente compromessi e manipolatori. Eppure, è in Toro scatenato che Scorsese concentra la sua ossessione su un solo personaggio. Il soggetto, ideato da Scorsese con Paul Schrader, è noto: l’autobiografia dell’ex campione del mondo dei pesi medi, Jake LaMotta, pubblicata nel 1970, che celebra una leggenda costruita in parti eguali da talento sportivo e vita sregolata. Robert De Niro era convinto che quella storia sarebbe stata perfetta per esaltare le sue capacità; i tentativi di persuadere Scorsese, al principio, furono infruttuosi: al regista non interessava girare un film sulla boxe.
I produttori, Robert Chartoff e Irwin Winkler, erano reduci dalla fortuna (con tanto di Oscar) di Rocky, compensata dal clamoroso fallimento del sottovalutato musical di Scorsese, New York, New York. Chissà con quale spirito i due avranno discusso con Scorsese di Toro scatenato, dopo averne sperimentato la peculiarità artistica in un progetto estremo, costoso, vano. Ma la storia di LaMotta era prepotente: di rado sono stati investiti così tanti soldi per raccontare la storia di un bastardo di tale livello.
Narrandolo dagli anni Quaranta alla metà dei Sessanta, LaMotta si mostra per ciò che è, un uomo egoista, violento, viscerale, che precipita in un declino senza rimedio. Tormenta fisicamente e psicologicamente due mogli, sfrutta le minorenni, allontana da sé, con brutalità, il fratello manager: alcune scene sono di intensa violenza. Di per sé, la sceneggiatura è poca cosa. Seguiamo la carriera del pugile che diventa proprietario di un night, dissipa i matrimoni e la vita, passa dalle urla al pianto, si perde senza imparare nulla. Eppure, realizzato da Scorsese e interpretato da De Niro, il film ha una sontuosa vitalità: è uno studio sulla rabbia incontrollata e sull’insicurezza che si fa ferocia, in un mondo che non è soggetto alla consueta catarsi hollywoodiana. In un genere dove dominano storie devote di vittoria sulle avversità, Toro scatenato mostra la dura realtà della vittoria, le avversità che inghiottono tutti, tutto. Non tutti gli uomini feriti guariscono, imparando a guarire le ferite degli altri. La fotografia in bianco&nero di Michael Chapman e la musica caotica, sprezzante, richiamano il neorealismo italiano del dopoguerra che giunge in America quando LaMotta attraversa la sua estasi. Toro scatenato spoglia la narrazione di ogni enfasi romantica, racconta i bassifondi della vita, guarnita da persone sgradevoli.
Perfino i bersagli contro cui si scaglia LaMotta non vengono addolciti per attirare la nostra simpatia. La sposa adolescente, Vickie (interpretata in modo egregio da Cathy Moriarty, al suo debutto al cinema) è una figura remota e sfuggente, indurita dai maltrattamenti, in uno stato emotivo opaco, severo. Joey (Joe Pesci, che inizia qui la sua collaborazione con Scorsese) è espressivo quanto aspro, meno feroce di Jake soltanto perché gli manca la mole fisica. Toro scatenato non ci invita ad avere compassione per l’uomo, ma ci piega a provare la sua vita interiore e crudele, rotta dai combattimenti forzati. Non sorprende che il pubblico mainstream non abbia apprezzato: uscito alla fine del 1980, il film ha incassato 23 milioni di dollari negli Stati Uniti, recuperando a mala pena gli investimenti. Il genio registico di Scorsese ha permesso al film otto nomination agli Oscar. La statuetta più importante andò al melodramma familiare girato da Robert Redford, Gente comune, tuttavia De Niro riuscì a trionfare come miglior attore. Il puro talento fisico ostentato nel film – come si sa, De Niro è ingrassato per la parte di circa trenta chili – gli ha concesso la vittoria.
Ciò che rede il suo LaMotta agghiacciante e indelebile, tuttavia, non è certo la tracotanza fisica né l’audace tono della voce o la pervicacia nella lotta, ma lo scavo dentro un’anima lacerata, la cui vulnerabilità non suscita necessariamente simpatia. Con un autentico colpo di genio, Toro scatenato si chiude con LaMotta che recita l’immortale monologo di Marlon Brando, da Fronte del porto. Un attore che intreccia la spavalderia ferita del suo personaggio a quella di un altro attore, mentre realtà, finzione e delusione tintinnano come la campanella sul ring. Quarant’anni dopo, Toro scatenato resta un film, fortunatamente, che pende su di noi con corrosiva, irrisolta bellezza.