R) Forse hai ragione… Da non riconciliato. Per me scrivere questa storia è stata una scelta quasi naturale, sicuramente istintiva. Mentre scrivevo, si materializzava quest’uomo in rivolta contro la banalità del vivere quotidiano. Ma forse riguarda più una rivolta verso i personaggi raccontati negli altri romanzi che non proprio quelli reali. Io tuttavia, come ho già detto a qualcuno, dichiaro la mia totale estraneità al milieu letterario italiano e alla sue risibili mode. Si è talmente inflazionato un genere che amo molto come il giallo-noir che me lo rendono quasi insopportabile: certe volte mi sembra che qualcuno scriva di nulla infarcendolo di poliziotti, investigatori e questioni di falso sociologismo. Io invece cerco dentro di me delle domande e delle risposte che probabilmente una parte degli esseri umani si fanno. Quando scrivo mi sento quasi in trance, come fossi un tramite tra qualcosa di ancestrale che vuole uscire fuori e la società che circonda il mio essere. In questo romanzo ho usato vari piani, quello del flusso di idee, ma anche la descrizione dettagliata di alcuni interni personali e di luoghi, oltre al fatto che sono intervenuto io come narratore nella storia per riflettere con il futuro lettore sui personaggi e sul loro modo di agire e connettersi.
D) Sembra evidente che il personaggio di Marco Filangieri ti somigli abbastanza. Le citazioni che inserisci da quelle dei luoghi a quelle letterarie a quelle musicali sembrano appartenerti.
R) Con il mio protagonista condivido l’amore incondizionato per il jazz, ma anche quello dei viaggi e del vagabondare solitario. Tutti i luoghi che sono citati nel romanzo sono luoghi in cui sono stato o vi ho vissuto. Come alcuni rifiuti e alcune inquietudini dell’esistenza del protagonista potrei farle mie. Si vede che è questo il mio modo di scrivere, anche se questo romanzo è pura fiction e non autobiografico. Diciamo che la mia necessità di scrivere nasce da una mia necessità di riflettere sulle cose del mondo, ed io ci sono dentro completamente emotivamente.
D) I temi nel romanzo sono anche altri, anche se sono raccontati senza lasciare troppo spazio, come la fine dell’idea della famiglia sia dal lato affettivo che solidaristico, ma anche della svalorizzazione dei sentimenti e dell’amore, oltre ai problemi di comunicare e di riconoscere i propri sentimenti. Lo dico pensando al rapporto che ha lo stesso protagonista con Mària a Londra, a quello degli amici bo-bo di Parigi, a quello del fratello e della moglie che vivono a Novara. Egoismi che arrivano fino all’estremo di procurare l’amante innocuo alla moglie per poter conservare una parvenza di famiglia e poter continuare a fare ciò che si vuole.
R) Credo che uno dei problemi maggiori di oggi in Occidente è quello di aver perduto la dignità dei comportamenti, una perdita derivante da un non sense di ciò che facciamo e pensiamo. Dove realtà, apparenza e convenienza si mischiano e si condensano creando un’opacità inquietante. E il cambiamento della struttura della famiglia ha determinato un ulteriore svaporamento dei pochi punti fermi. E’ vero quello che dici, queste realtà sono raccontate ma tenute sullo sfondo come un tramonto o un paesaggio, l’ho fatto scientemente perché volevo soprattutto raccontare questo musicista jazz quarantenne scorbutico e anarchico, il resto serviva solo da contraltare e non da coprotagonista della storia.
D) Ma anche il tuo protagonista è un egoista, un individualista e si muove un po’ a caso.
R) Sì, può sembrare così, ma diciamo che muovendosi individualmente non può essere inserito in un’idea di massa condizionante. Appartiene a quel tipo d’avventurieri sempre più rari che cambia donna, città e amici rimanendo fedele a se stesso e non facendosi condizionare da niente.
Quanto tempo hai impiegato a scrivere Da Finsbury a Dante.
Ho impiegato un po’ più di un inverno, quando scrivo non faccio altro. Quindi dodici ore al giorno per circa quattro, cinque mesi. Ma non avendo trovato un editore subito, ho passato per qualche anno tutto il tempo libero a riscriverlo e a modificarlo. Ci simo tenuti compagnia con Marco, quasi fossimo diventati due complici. Per fortuna che ho trovato un editore altrimenti starei ancora riscrivendolo nei tempi morti.
D) Stai già scrivendo qualcosa ?
R) Scrivere per me è liberatorio. Lo faccio costantemente, come bere dell’acqua o fare una passeggiata. Ti permette di allontanarti dal quotidiano, dal luogo in cui sei, da molte rogne. E’ anche il modo più economico per viaggiare, sei seduto da qualche parte e ti ritrovi a Singapore o a Città del Messico, riesci anche a sentire odori lontani, a rincontrare persone che avevi dimenticato e renderle migliori di quello che erano, a trovarti in un giardino che non sapresti ritrovare o in una casa. Quindi sì, sto scrivendo qualcosa ma sono ancora agli appunti: sono a Parigi, in una casa vicino ai giardini del Lussemburgo e voglio scrivere un romanzo su mio padre. Devo ancora comprare la colonna sonora che mi accompagnerà nella scrittura e anche qualche libro che mi libererà dall’invadenza di ciò che scriverò.
D) Buon lavoro, allora.
R) Buon lavoro e buona fortuna anche a te.