Paolo Pietrangeli, cantautore, regista e voce della canzone di protesta è morto. Nato a Roma 76 anni, era figlio del regista Antonio Pietrangeli. Negli anni Sessanta compone molte canzoni politiche, alcune divengono popolari all’interno dei movimenti di sinistra, due diventano veri ‘ inni ‘: Valle Giulia e Contessa, entrambe incise con la seconda voce di Giovanna Marini, altra grande interprete delle canzoni di protesta. Ad ottobre è stato premiato al premio Tenco e per l’occasione Altan gli aveva dedicato un disegno su Contessa.
Intervista di Malcom Pagani a Paolo Pietrangeli per ”il Fatto Quotidiano” pubblicata da Dagospia
Ricordi di Paolo Pietrangeli alla lettera effe: “Fellini cambiava idea in continuazione e ci faceva impazzire. Ci incontravamo di mattina nel suo studio per decidere il da farsi e lui lasciava che a scegliere fosse il destino. Giocava con le monete, interrogava i segni, cercava la fortuna, agitava ritualmente il caffè. All’epoca in cui lavoravo da assistente per Roma, si era deciso da un momento all’altro che uno dei capitoli del racconto fosse sul Verano.
Danilo Donati aveva ricostruito con fatica il cimitero e io mi ero scapicollato a trovare 300 persone per una scena di massa, forse un funerale, che il maestro aveva immaginato soltanto pochi giorni prima. Passò una settimana e in una di queste riunioni mattutine, alla fine della liturgia, un adombrato Federico buttò lì un ‘Il Verano non lo faccio”. Era tutto pronto per girare: ‘Come non lo fai?’, ‘Non si può, viene male’, ‘Non potevi pensarci prima?’, ‘Senti, non rompere i coglioni, anzi, fammi un favore, dillo tu al produttore’. Il delegato si sentì morire, abbandonò il set, sparì per due giorni, si rese irreperibile”.
Con la barba, la tosse: “A forza di fumarmi qualunque cosa mi è venuto l’enfisema” e i settant’anni in un paio di jeans, certi registi Paolo Pietrangeli li conosceva bene. Suo padre Antonio: “Che da ragazzo trovavo poco rivoluzionario prima di capire -ma c’è voluto tempo- che la rivoluzione sta nelle cose che fai e non nelle enunciazioni”. Ettore Scola. Pier Paolo Pasolini: “Con me era freddo, scostante e antipatico. Veniva a casa a trovare papà e non mi degnava di uno sguardo. Alla terza visita andai a lamentarmi: ‘Ma chi è ‘sto frocio?’. E mi arrivò uno schiaffo così forte che l’aria si fermò”.
La setta dei poeti estinti si ritrovava nella mansarda dell’appartamento romano di Antonio Pietrangeli per parlare, immaginare e mettere intorno al tavolo Maccari, Flaiano: “Un altro non proprio simpatico” Amidei, Tonino Guerra, Sonego e un cinema italiano che l’interprete di Contessa vide da vicino: “Origliando dietro la porta, subendone il fascino, augurandomi di poter partecipare presto alla festa”.
Con molti documentari, qualche film, più di 15 album dal ’69: “Come cantante sono sempre stato una pippa, ma tanto tra un po’ i dischi non li compreranno più neanche i parenti”, un libro autobiografico “Una spremuta di vite” (edizioni Navarra) e un’impressionante somiglianza con il Saul di Homeland, Mandy Patinkin, Pietrangeli non ha rimpianti né terre promesse: “Se la nostalgia serve come motore per la scoperta è accettabile, se diventa riflessione sul passato si trasforma in una trappola. Ti ammazza. Ti deprime. E io non mi sento depresso, ma curioso”.
Del passato non le manca nulla?
Il ticchettio della macchina da scrivere. Un rumore straordinario. Un rumore che non c’è più. Non era un regista prolifico, girava un film ogni 2 o 3 anni. Il resto erano incontri, sessioni di sceneggiatura, pomeriggi di tasti battuti senza tregua.
Suo padre è stato un grande regista.
Papà era onnisciente il che lo rendeva probabilmente antipatico ai più, molto interessante in assoluto e sicuramente palloso per un adolescente che in Grecia, mentre gli altri andavano al mare, girava per musei e rovine con un signore che le epigrafi greche le traduceva in tempo reale.
Era pedante?
Era colto, ma era anche molto spiritoso.
Fantasmi a Roma, Adua e le compagne, La parmigiana, Io la conoscevo bene. Oggi suo padre è celebrato come merita.
Oggi. Ieri era diverso. Il film uscivano in sala e le recensioni finivano per somigliarsi tutte. Quando andava bene, erano liquidatorie. I critici erano durissimi e papà ci rimaneva male.
Suo padre morì girando il finale di Come, quando e perché.
Il 12 luglio ‘68, annegando nel mare di Gaeta, vicino a Torre Scissura. Un posto con delle correnti del cazzo. Lui, il capo macchinista e tre attori erano in acqua, ci furono dei mulinelli, provarono tutti a tornare affannosamente a riva. Papà battè la testa su uno scoglio e andò sotto. Ci eravamo visti la mattina stessa, io tornavo da un concerto a Follonica, rincasai all’alba e lo trovai in cucina a bere un caffè: “Vuoi che ti accompagni?” proposi e lui guardandomi in faccia disse solo: “Ma hai visto come sei ridotto? Riposati, ci vediamo stasera”.
Non vi vedeste più.
Avevo dormito fino a sera e svegliandomi avevo trovato le luci accese e le stanze vuote perché- seppi dopo-erano corsi tutti a Gaeta. Era accesa anche la tv quella sera e fu così che scoprii della morte di papà. Da un notiziario. Avevamo appena fatto pace.
Litigavate spesso?
Avevo avuto una discussione forte perché dopo tre sofferti anni sui libri di Giurisprudenza che detestavo, senza dir nulla ai miei, avevo cambiato in corsa facoltà iscrivendomi a Filosofia. Loro si aspettavano la laurea e io avevo ricominciato da zero. Andai da una specie di medico di famiglia, uno psichiatra, a confessargli il mio disagio e a chiedergli consiglio. Lui fece il delatore a avvertì i miei.
Si arrabbiarono?
Molto. Di solito accompagnavo mio padre nei sopralluoghi, ma quando papà lo venne a sapere successe un casino e per quelli de La picaresca, un film scritto con Scola e Maccari che non si fece mai, in Spagna, portò mio fratello.
I suoi genitori erano opprimenti?
Io e papà non avevamo questa enorme confidenza e per i permessi e per le mediazioni ricorrevo a mia madre, però l’oppressione no, non c’era.
Le impedirono di occupare l’Università e lei per tutta risposta scrisse due delle canzoni politiche più note del ’68: Valle Giulia e Contessa.
Le scrissi prima del ’68 e Contessa comunque è nata da un senso di colpa. Avrei voluto essere in quelle aule a dormire e non potendoci stare fisicamente, mi chiusi in camera e scrissi canzoni.
Si è mai vergognato retrospettivamente di alcuni versi di quella canzone?
E perché mai?
Erano concetti duri, severi, ortodossi: “…Se c’è chi lo afferma non state a sentire/è uno che vuole soltanto tradire/ se c’è chi lo afferma sputategli addosso/ la bandiera rossa gettato ha in un fosso”.
Non mi sono mai vergognato di una mia sola canzone. Non mi sono vergognato ieri e non mi vergogno oggi. Ho scritto guardando sempre all’ironia e l’ironia c’era anche in Contessa.
Chi le fece venire voglia di scrivere e cantare?
Federico Zeri che frequentava casa nostra e con il quale mi divertivo a creare assonanze, rime, giochi di parole e prese in giro.
Cantante, regista e prima ancora, aiuto regista.
Esordii con Franco Giraldi, un vero signore, ne La Bambolona con Ugo Tognazzi e Isabella Rei. Poi lavorai con Mauro Bolognini ne L’assoluto Naturale e prima di aiutare Fellini in Roma, feci da secondo aiuto regista in Morte a Venezia di Visconti.
Come venne scelto?
Non mi ricordo se fui io a iniziare a rompere i coglioni agli amici di papà o al contrario, cominciò una gara virtuosa per stare vicino all’orfano.
Morte a Venezia?
Luchino aveva un paio di fissazioni. Una era la politica, l’altra i Bersaglieri. Ne parlava sempre. Pierino Tosi, costumista straordinario, minimizzava: “Non dargli retta, questa cazzata la dice sempre e poi non accade niente”. Invece, un giorno, Luchino i bersaglieri li volle davvero.
Toccò a lei cercarli?
E a chi altrimenti? Li cercai ovunque. Nelle associazioni a riposo e nelle bocciofile. Dovetti addestrarli io, che di marce militari non sapevo niente. Sul set le gerarchie erano molto chiare. Ero il secondo aiuto e il primo, il capo, era Albino Cocco. Capace, ma veramente insopportabile. Mi tendeva trappole assurde. Un giorno, al Des Bains, prendemmo accordi sul percorso del carrello dividendoci le quattro sale dell’albergo e strisciando ventre a terra accanto ai binari per dare indicazioni alle comparse in una scena di massa.
Visconti iniziò a girare e mi accorsi che le indicazioni di Albino erano false. Lo affrontai: “Che cazzo mi ha detto prima?”, “Era solo per vedere se eri pronto”, “Mentre tu sperimenti io perdo il lavoro” risposi e mi accorsi in un istante che certe iniziazioni erano il prezzo da pagare per stare in una corte medievale.
I set di Visconti erano una corte medievale?
Certo, con i ruoli propri della corte medievale. Il buffone, il sicario, la spia. Tutti incasellati. C’era servilismo. Per mesi Luchino cercò Tadzio mentre io e gli altri preparavamo il film.
La seconda fissazione di Visconti, ci diceva era la politica.
Durante le riprese si svolsero le elezioni amministrative. Luchino riunì la troupe e tenne il più bel comizio- e ne ho sentiti tanti- che abbia mai ascoltato in vita mia. Invitava tutti a votare Pci. Nella retorica non aveva rivali.
Un topo nel formaggio.
I topi, anzi le pantegane, Visconti me le fece cercare davvero su un isolotto per esigenze di scena. In Morte a Venezia c’era il colera e le pantegane erano perfette. Ne catturai 150, ma non vivendo in cattività sul set resistettero poche ore. Girammo una scena con i toponi e ci assicurammo che fosse buona la prima: “Guarda Luchino che se scappano non le recuperiamo” lo avvertiamo. E lui: “Tranquilli, ne giriamo solo una”. Naturalmente volle la seconda e dovemmo rincorrere le pantegane fuggite.
Gli attori?
Silvana Mangano non dava l’idea di essere la persona più allegra del pianeta, Bogarde era simpaticissimo.
E Visconti?
Visconti era Visconti. Mi incaricò di cercare canzoni in voga nel 1911, l’anno in cui era ambientato il film. Andai all’emeroteca di Santa Cecilia, feci le fotocopie, tornai e mi chiesi, “Ma adesso come gliele faccio ascoltare?” Ebbi la malaugurata idea di rivelargli i miei dubbi e lui mi guardò come si guardano i pezzi di merda: “Io la musica la leggo sugli spartiti”.
Morte a Venezia venne girato in piena spinta post-sessantottina. Cos’è stato il ’68?
Il consiglio migliore me l’ha dato Alberto Olivetti: “Se ti chiedono del ’68 tu dì che non ti ricordi niente”.
Nel 1977 lei girò Porci con le ali.
Il libro di Ravera e Lombardo Radice uscì nel ’76 e anche grazie a un articolo di Giuliano Zincone- i giornali contavano ancora qualcosa-ebbe un enorme esito. Venne da me Giaime Pintor spiegandomi che Orfini, il produttore che aveva acquistato i diritti del libro era fermamente intenzionato a firmare da regista. Giaime mi spiegò l’idea: “Ingaggiamo Giovanna Cau, facciamo rinsavire Orfini e il film lo giri tu”. Giovanna Cau, intelligenza superba, riuscì nell’intento. La conoscevo. Mio padre era un gran puttaniere, saltava da una gonna all’altra e aveva avuto a che fare anche con Giovanna.
Torniamo a Porci con le ali?
Le cose non andarono benissimo, c’erano riunioni di sceneggiatura in cui si parlava molto, si giocava e non si combinava un cazzo. Lombardo Radice se ne andò quasi subito.
Disse, per colpa della sua “preponderante presunzione”.
Io questa mia preponderante presunzione non me la ricordo. Mi ricordo invece che volevo raccontare come molte delle cose che erano state importanti un tempo- la politica, il sesso e il linguaggio- diventavano riti senza funzione. Non è che mi interessasse poi troppo se poi Rocco e Antonia trombavano o meno.
Nel libro, sacrilego, c’erano passaggi forti. Questo, sulla sodomia, ad esempio: “Ipocrita: se mi devi inculare, sbrigati. Cerca di essere almeno brutale”.
La sodomia me la sono dimenticata, riscrivevo le scene di notte con l’aiuto di Giovanna Marini che non fosse altro che per essersi sottoposta a quella immane rottura di coglioni meriterebbe il mio ringraziamento eterno.
Era un buon film o era una schifezza?
Era un ottimo film che venne massacrato-e non solo dalla censura-con premeditazione. Porci con le ali ebbe una lavorazione tormentata. Sia il produttore che Lombardo provarono a sostituirmi in corsa. Mi mandarono sotto un avvocato: “Lei non deve fare altro che mettersi da parte”, “Ma neanche per il cazzo” risposi. E resistetti. Il film in ogni caso costò 400 milioni di lire e incassò oltre 3 miliardi.
Dopo I giorni cantati, lei iniziò un lungo percorso con la televisione che la portò a essere per 23 anni consecutivi il regista del Maurizio Costanzo Show.
Avevo sempre il record dei film approvati e non realizzati a un certo punto mi stancai e feci tv. Prima Orazio, un sit comedy con Costanzo stesso nata da un’idea che avevo elaborato con Scola e Scarpelli e poi con lo show di Maurizio.
Siete amici?
Con me si è comportato sempre benissimo e se dovessi individuare una sgradevolezza, resterei in silenzio. Amicizia forse no, ma di sicuro un rapporto professionale perfetto.
Mai stato in imbarazzo per aver lavorato in una tv berlusconiana?
Mai. E a dire il vero neanche quelli che avevo intorno. Mi dissero di tagliarmi la barba e di non vestirmi di marrone, ignorai i consigli e non accadde niente. Ci lavoro ancora oggi in una tv berlusconiana, da regista di C’è posta per te. Maria De Filippi è bravissima, non stacca mai, lavora sempre, feste comprese.
La musica è cambiata, in tutti i sensi.
Per tutti. Se mi fossi dovuto sostenere con I dischi del sole avrei fatto la fame. Da parte non ho messo niente, ma mi sono divertito.
Ha ancora senso la canzone politica?
Alla fine si è mischiato tutto, la canzone è cambiata e noi cantautori siamo rimasti come vecchi dinosauri sullo sfondo.
In lei prevale l’allegria o il tono malinconico?
Non sono felice perché vedo merda montare da tutte le parti: il crollo delle ideologie ha creato mostri, ma per il resto non mi lamento. Canto ancora e ogni tanto mi svito la testa per fare anche l’altro lavoro, quello che mi dà da mangiare.
Nessuna. Sto sempre per conto mio. Lo vedo che mi guardano come uno un po’ strano e a nessuno viene in mente di dire passiamo qualche ora con Paolo.
E a lei dispiace?
Neanche per sogno. Da solo sto benissimo.