Torna in libreria “Niketche: una storia di poligamia”, il romanzo più conosciuto di Paulina Chiziane, autrice mozambicana che lo scorso anno, nel 2021, è stata insignita del Premio Camões, il maggiore riconoscimento per gli autori in lingua portoghese. È un premio che è stato vinto negli anni da autori come José Saramago e Jorge Amado, Antonio Lobo Antunes e Chico Barque, e viene considerato come una consacrazione dell’opera di un autore o di un’autrice nel pantheon delle lettere portoghesi. L’assegnazione a Paulina Chiziane è stata a suo modo storica perché si tratta della prima donna africana a vincere il premio. Lo avevano già vinto scrittrici brasiliane o portoghesi, e autori africani maschi, ma mai nessuna donna del continente africano. La cosa però non sorprende, non solo per l’importanza dell’opera di Chiziane, ma anche per il fatto che la scrittrice mozambicana ha infranto diversi record (e tabù) delle lettere del suo paese: è stata ad esempio la prima donna a pubblicare un romanzo, “Ballata d’amore al vento”, nel 1990. Fino a quell’anno, in quello che è considerato uno dei paesi più poveri dell’Africa, le donne che si avvicinavano alla scrittura lo facevano principalmente attraverso la poesia o il racconto breve.
“Niketche” è uscito esattamente venti anni fa, e in Italia era già stato pubblicato nel 2006, sempre da La Nuova Frontiera che lo ripropone ora in una nuova edizione. Si tratta di un romanzo spiazzante per la capacità di operare con grande semplicità un ribaltamento ironico del concetto di poligamia. Rami, una donna mozambicana, scopre che il marito ha formato diversi nuclei familiari con altre donne. Invece di entrare in conflitto con le rivali, propone loro di allearsi in una sorta di rete familiare poligamica (una pratica che, pur essendo vietata nel Paese, continua ad essere diffusa). Quello che dovrebbe essere una condizione svilente per le donne si trasforma nel suo opposto, perché nel momento in cui tutto avviene alla luce del sole ogni donna può rivendicare i propri diritti, solidarizzare con le compagne e alla fine spezzare i legami di dipendenza dal marito, che diventa una figura secondaria e sempre più ridicola.
Il romanzo sembra attingere, oltre che all’invenzione letteraria, a una conoscenza antica dei legami tra le donne e gli uomini, in un paese dalle moltissime tradizioni, che ha conosciuto tanto il sistema patriarcale che quello matriarcale.
Durante un viaggio in Mozambico nel 2019 ho avuto modo di incontrare Paulina Chiziane nella sua casa di Maputo, che si trova lontana dal centro, con un bel giardino a separarla dal traffico della strada. Abbiamo conversato di letteratura, di tradizioni mozambicane, di miti antichi che aiutano a capire il presente, di patriarcato e matriarcato, delle ferite del colonialismo. Quella che segue è la trascrizione di quell’intervista, rimasta finora inedita.
Cominciamo dalla sua storia. Lei è stata la prima donna mozambicana a pubblicare un romanzo.
Sì, nel 1990 ho pubblicato il mio primo libro, “Ballata d’amore al vento”, che è considerato il primo romanzo mozambicano scritto da una donna. Però non è stata la prima cosa ho scritto, avevo già pubblicato piccole cose sulla rivista Tempo, Domingo e su altre testate.
Le cose sono cambiate, oggi, per le donne che vogliono scrivere?
Sì, qualcosa è cambiato, ma non molto. Quando ho cominciato nessuno credeva che una donna potesse scrivere e pubblicare un testo di grande respiro. La gente da me si aspettava racconti, qualche poesia d’amore. Per questo, quando apparve il mio primo romanzo lo stupore fu grande. E in effetti ho dovuto combattere per pubblicarlo. Oggi le cose sono molto diverse, la società si è abituata all’idea di una donna che scrive, e poi c’è la tecnologia che connette gli artisti e il pubblico al resto del mondo; ma nonostante questo c’è ancora tanta strada da fare. Sono poche le donne che scrivono. Finché vanno all’università e non sono sposate, molte ragazze provano a scrivere, ma una volta sposate tutto cambia: il lavoro della donna all’interno dell’ambiente domestico diventa la priorità. Famiglia e figli occupano tutto lo spazio. Ci sono stati casi di donne che sono tornate alla scrittura dopo che i figli sono cresciuti, ma finché la famiglia occupa tutto il tempo della donna c’è poco spazio per la letteratura.
Quando iniziai a pubblicare avevamo due sole università; adesso ce ne sono molte di più, pubbliche e private, e per questo gli artisti sono più conosciuti e riconosciuti. Il paese è enorme. Cominciano a comparire scrittori che vengono dall’altra parte del Paese e questa è una cosa ottima, perché normalmente la letteratura è tutta concentrata a Maputo. Ci sono province che non sono minimamente rappresentate, ma spero che avvenga in breve.
Lei ha scritto un libro che parla di poligamia, un tema connesso alla condizione femminile. Dare voce a questa condizione è per lei un fatto politico?
È difficile rispondere perché non mi piace la parola “politica”. Io parlo di molte cose, soprattutto di quelle che mi creano inquietudine. Non scelgo i temi di cui scrivo per raccontarli da una prospettiva politica, perché è più interessante leggerli da una prospettiva culturale.
Però la comparsa del suo primo romanzo, il primo scritto da una donna mozambicana, è stato un fatto anche politico. Ci sono più donne che prendono parola nelle arti, adesso?
In realtà, fuori dalla letteratura, gli artisti in Mozambico sono tradizionalmente di genere femminile. In Chiesa, ad esempio, sono le donne a cantare nel coro. Nei matrimoni sono sempre le donne a portare in scena le danze. E davanti al fuoco, nelle comunità rurali, sono le donne che raccontano le storie. La festa della comunità, l’arte della comunità, è sempre portata avanti dalle donne. Gli uomini sono soprattutto musicisti che accompagnano tutte queste dimensioni dove le donne rivestono il ruolo di voce principale, di compositrici. Tuttavia, quando si tratta di entrare in un’istituzione le cose cambiano. In radio, ad esempio, quando si deve registrare una canzone, è lì che compaiono gli uomini e scompaiono le donne. Eppure le artiste che, fuori dal paese, hanno reso celebre la musica mozambicana sono soprattutto donne, come Elvira Viegas.
Le donne dominano la cultura orale, ma quando passiamo alla cultura scritta le donne scompaiono, perché l’educazione è selettiva e la società investe più negli uomini che nelle donne. D’altronde parliamo di un Paese in cui fino a pochissimo tempo fa le famiglie non lasciavano studiare le ragazze. E ancora oggi, anche se accedono all’istruzione superiore, fanno fatica a portare a termine il corso di studi: molte di loro a diciotto anni hanno già figli, devono lasciare gli studi per badare alla famiglia. Oggi esistono, per fortuna, dei movimenti per il diritto all’istruzione delle donne e la tecnologia ci permette di guardare a ciò che avviene fuori dal paese, di prendere spunto da altri modelli, ma quello dell’esclusione femminile resta il modello dominante nel paese.
Le tradizioni africane e mozambicane seguono questo modello, ma lo fanno anche quelle cosiddette “moderne”: occorre portare avanti una lotta permanente in entrambi i contesti per ottenere una maggiore parità tra donne e uomini.
Com’è cambiata la sua scrittura nel tempo?
Molte cose sono cambiate. Quando ho pubblicato il primo libro avevo 35 anni, oggi ne ho quasi il doppio. Ho sperimentato molte cose. Cambia il modo di guardare le cose e, anche se non avessi pubblicato, il semplice invecchiare è già una mutazione. Quando ho cominciato volevo scrivere storie interessanti che riguardavano il mio Paese. Toccavo questioni culturali non perché fosse il mio obiettivo specifico, ma perché era normale che fosse così. Io vengo da una tradizione, da una cultura specifica, è il mio background, e quando scrivo lo faccio come Paulina, ma Paulina ha un subcosciente che abita nella sua cultura. Amo i miti, le storie che ho ascoltato nella mia infanzia e che ancora continuo ad ascoltare, che veicolano delle visioni del mondo anche molto differenti. Io sono del sud, della provincia di Gaza, che ha una cultura patriarcale; se vado in Zambezia, nel centro del paese, trovo un misto di patriarcato e di matriarcato; se invece vado a Mampula, lì la cultura è integralmente matriarcale. Queste differenti visioni del mondo, i conflitti che scatenano e le difficoltà che abbiamo a concepirci come un solo popolo, tutto questo fa parte del mio immaginario. Quando comincio a scrivere tutte queste cose emergono. E a volte mi viene voglia di mettere su carta alcune cose straordinarie che ho ascoltato e vissuto nel mio percorso. Ho viaggiato quasi tutto il paese, ho convissuto con diverse culture, e oggi, dopo questo percorso, la mia fame di vedere il mondo è molto diversa da quella di quando ero giovane.
“Niketche. Una storia di poligamia” è un esempio di questo. Dentro ci sono donne di tutte le province del Mozambico che si incontrano attorno allo stesso uomo. I conflitti raccontati sono quelli che ho visto e raccolto in giro e che sono il succo di quello che scrivo.
Vorrei approfondire il tema dei miti. Che ruolo hanno nella cultura mozambicana e che legame hanno con la sua scrittura?
Io andrei ancora più a fondo: che legame hanno i miti con la vita? C’è un mito che mi piace moltissimo, il mito della creazione del mondo secondo la cultura matriarcale. All’inizio dei tempi Dio era una donna che viveva sul monte Namuli, un luogo bellissimo che si trova nel distretto di Gurué, nella provincia della Zambezia. A un certo punto apparì un uomo, ma arrivò solo dopo la donna che creò tutto. In quel luogo si originarono tutte le razze del mondo, che partirono da lì per popolare la Terra. L’uomo cominciò a bramare il potere che aveva la Dea. In quella zona c’è una fonte da cui si originano due fiumi che vanno in direzione contraria. Uno è il fiume Licongo, che sfocia nell’Oceano Indiano, l’altro è il fiume Malema, che prosegue verso Mampula. Secondo questo mito, la prima battaglia tra uomo e donna fu disputata lì. La Dea partì verso nord, portando il matriarcato per tutto il continente. L’uomo proseguì verso sud, seguendo il fiume Licongo, e diffondendo il patriarcato. Siamo di fronte a un mito, potremmo dire una fantasia. Ma se osserviamo i comportamenti delle donne dal fiume Malema in su vediamo un mondo differente rispetto al sud: le donne si vestono e si truccano in modi che comunicano la gioia di vivere. Una donna di una regione matriarcale è una presenza forte, mentre gli uomini sembrano quasi dimessi. Il sud è differente: lì gli uomini si impongono, si presentano con un’aura di forza, mentre le donne vestono di scuro, come se cercassero un posto per nascondersi. Allora forse il mito può essere letto come una sorta di psicologia che abita nel subcosciente delle persone e che può perfino determinare il comportamento di un popolo.
Abbiamo vari miti, in Mozambico, belli e brutti come in tutto il modo. Il mito è una storia, non c’è bisogno di sapere se racconta qualcosa di vero o di finto, quello che dobbiamo capire è come interagisce con i caratteri di un popolo. Ci sono miti davvero interessanti, da questo punto di vista.
Esiste un mito della fine del mondo? Oggi l’Apocalisse sembra essere una narrazione imperante, anche a causa degli sconvolgimenti climatici e ambientali. Come si figurano la fine del mondo i miti mozambicani?
Non conosco miti che parlano della fine del mondo. Ma, nella mia percezione, quello che abbonda nella cultura mozambicana sono i miti di preservazione del mondo. E sono trai più belli. Quando sono stata nella Gorongosa la gente diceva: se vuoi urinare, prima devi chiedere il permesso allo spirito del monte. Se un uomo urina alla base del monte senza chiedere il permesso viene colto da un castigo, viene trasformato in una donna. Mi sembrava una storia interessante, così ho cominciato a cercare qualche donna che una volta era un uomo ed era stato trasformato a causa della sua insolenza. Ovviamente un mito è un mito, ma quello che scoprii è che questo come altri miti hanno un ruolo molto importante, quello di far capire alle persone che ci sono gesti che non possono essere fatti impunemente. Con l’avvento della colonizzazione e della modernità questi miti sono stati ritenuti delle favole; spesso però, in questo modo, si finiva per dimenticare anche la funzione che quel mito aveva all’interno della comunità.
Un altro mito molto diffuso riguarda gli alberi. Se si presenta la necessità di tagliare un albero è importante prima parlare con lo spirito dell’albero e raccontagli il motivo che ti spinge a farlo. Per la mitologia africana un albero è una vita. L’albero ha ricevuto il dono della vita dallo stesso Dio che ha creato anche te, per questo non puoi tagliarlo senza chiedere il permesso. Questo significa che non si può tagliare un albero per il puro gusto di farlo o per questioni utilitaristiche. L’anacardio, ad esempio, è un tipo di albero che non può essere toccato senza aver prima ricevuto un permesso, altrimenti, nel momento in cui cade, ti potrebbe franare addosso e tu finiresti per morire con lui. Io stessa ho dovuto tagliare un albero qui, a casa mia, un albero molto grande che stava compromettendo una parete della casa. Andai in giro a cercare qualcuno che facesse il lavoro e i tre operai con cui parlai mi dissero tutti la stessa cosa: questo è un grande albero, non possiamo tagliarlo senza aver detto una preghiera per lui. Con il primo insistetti per tagliarlo, ma lui si rifiutò, e lo stesso fece il secondo. Al terzo dissi: va bene, fai la tua preghiera, ma dopo porta a termine il lavoro. Lui mi chiese di comprare una bottiglia di vino bianco, una gallina bianca e del tabacco. Quando arrivò l’ora della preghiera mi misi ad ascoltarlo. Fu una preghiera bellissima. L’uomo disse: albero, noi non vogliamo ucciderti, vogliamo che ti ritiri da qui per poter salvare altre vite. Ascoltami, albero, questa parete si sta rompendo. Se la parete si rompe il tetto può cadere e le persone che sono in casa possono morire. Quello che ti chiediamo, albero, è che tu te ne vada da qui per far in modo che la gente viva in pace e senza pericolo. Dopo aver recitato questa preghiera l’uomo uccise la gallina, versò un po’ di vino sul terreno e, infine, cominciò a tagliare il tronco.
Dopo qualche tempo l’uomo passò per casa mia e disse che le radici dell’albero avevano generato una nuova pianta, da un’altra parte. La preghiera era stata ascoltata, l’albero si era spostato altrove. Non so dire se fosse vero, ma non è quello il punto. L’importante è che le cose vengano fatte secondo un certo criterio e con rispetto.
Parlare di miti vuol dire anche parlare di tabù. Ce ne sono ancora che riguardano la vita delle donne?
Certamente. Ci sono molti tabù che riguardano le donne mestruate. A loro tutto è proibito: non possono entrare i cucina, non possono toccare il cibo, eccetera. Una volta parlai con un vecchio, chiedendogli perché si conservassero certi tabù e lui mi disse: sai, qui, nella nostra regione, l’acqua è molto lontana. Non sappiamo se questa donna è una persona che mantiene un igiene personale oppure no, per questo, durante il periodo, è meglio che resti sola, perché la mancanza d’acqua o di igiene può essere causa la trasmissione di malattie. Fu molto interessante ascoltare questa spiegazione, perché era meno irrazionale di quello che sembrava. I miti come questo spesso rispondono a un’esigenza di conservazione, ma possono anche essere violenti.
La colonizzazione è stata una storia di violenze ma ha lasciato delle tracce che restano nel presente, come la lingua, che è oggi un aspetto unitario per un paese vastissimo che ne parla diverse decine. Qual è l’eredità di quella storia?
La colonizzazione è durata molti secoli e credo che anche la liberazione durerà diversi secoli. Oggi esiste una libertà, ma è una libertà apparente, perché il mondo si muove allo stesso modo di prima pur avendo mutato forma. Le nuove generazioni devono esserne consapevoli e continuare a lottare. Soprattutto in questi anni, che i signori del mondo tornano a usare discorsi di stampo hitleriano. Razzismo, intolleranza, sono cose che credevo appartenessero al passato e che invece oggi tornano con violenza a causa di un cinico calcolo politico. La questione coloniale, dunque, è ancora accesa. Alcuni europei, per lavarsi la coscienza – perché si tratta di una storia tragica –, affermano che ha avuto anche aspetti positivi. Ma quali? Avete presente del livello di distruzione che ha significato per questo continente? La forza lavoro migliore è stata rapita e portata in America. È stata un’enorme sofferenza in passato che continua ad essere sofferenza nel presente. Siamo stati imprigionati in una terra che era la nostra. Di cosa dovremmo essere grati? Del fatto che oggi parliamo portoghese?
Il portoghese è una lingua bellissima e ci aiuta a comunicare, a parlare con il mondo. Fa parte di quello che siamo. Ma ciò che è stato fatto durante la colonizzazione deve essere ancora ripagato.
In Europa tornare a parlare del passato coloniale significa anche fare i conti con il presente delle migrazioni che stanno interessando il continente. C’è molta ostilità da parte di una parte delle società europee. Lei che cosa ne pensa di questo fenomeno?
Penso che il pianeta Terra è la casa di tutti gli esseri viventi: lucertole, uccelli, persone, cobra, capre. È di tutti. Dovunque c’è spazio, quello spazio è per tutti gli esseri che lo attraversano. Gli europei possono venire in Africa e vivere nello spazio africano, perché umanamente appartiene anche a loro, come a tutte le persone che vengono in pace. Spesso, invece, gli europei sono venuti armati e hanno maltrattato il popolo africano, hanno ucciso e torturato – e i portoghesi non sono stati i primi né gli unici. Chi viene in pace dovrebbe poter andare ovunque: e se gli europei vengono qui, perché i neri non dovrebbero poter andare in Europa?
Lei ha parlato di una lotta di liberazione che non è solo militare, ma culturale, e che durerà per decenni. Ma molte cose sono cambiate dall’epoca dell’indipendenza del Mozambico nel 1975. Di quello spirito è rimasto qualcosa nel paese di oggi?
Penso che la vita è fatta di tappe differenti. Ci sono momenti in cui la gente si dimentica del cammino che sta compiendo e altri momenti in cui se lo ricorda. Abbiamo bisogno di consapevolezza di ciò che è successo in passato per poter disegnare il futuro. Il nostro Paese è stato molto scosso dalla guerra e la gente ha pensato solo a sopravvivere. Ma io credo che tornerà un momento di riflessione su chi siamo e su che Africa vogliamo costruire. Penso che lo spirito dei movimenti di liberazione africani non sia morto, sta solo aspettando di riemergere.
Il Mozambico è un mosaico di lingue, religioni, culture. Ma c’è qualcosa, magari di plurale, che definisce questo paese?
Essere mozambicani significa essere in continua costruzione. Anche l’Europa, che si definisce come “vecchio continente”, sperimenta identità in movimento, che magari si basano su idee costanti ma certamente non su un marchio fisso e inamovibile che definisca quelle identità. L’identità non è statica, è dinamica, muta col tempo. Gli europei colonialisti, quando sono venuti in Africa, pensavano di essere i signori del mondo ma finirono col subire uno shock culturale: mentre loro erano vestiti fino al collo, da noi la gente andava in giro quasi nuda. Per far fronte a questo shock dissero che gli africani erano selvaggi, così da poter definire se stessi come evoluti. Ma pian piano che si insediarono nel continente si resero conto che i loro vestiti non erano funzionali per il clima che c’era, e cominciarono a spogliarsi anche loro. Oggi anche i bianchi, quando fa caldo, vestono di vesti leggere, ampie, ma è qualcosa che hanno appreso dai popoli africani. E, sempre dagli africani, hanno imparato qualcosa sulla libertà del corpo. I corpi delle donne africane scioccarono gli europei, tanto che alcune donne vennero portate in Europa per essere mostrare, al pari di animali. Il corpo negro agli occhi europei era un corpo peccaminoso. Oggi molti degli attributi delle donne nere che scandalizzavano sono diventati parte dell’immaginario e in Brasile, ad esempio, ci sono donne bianche che si sottopongono alla chirurgia per avere un seno, un sedere o delle labbra da nera. Gli africani insegnarono qualcosa sui corpi che gli europei avevano dimenticato: quello che veniva chiamato “peccaminoso” era in realtà “sensuale”. In fondo anche questo è uno scambio che c’è stato tra le nostre culture: è normale, la vita è fatta di prestiti. Non c’è nessun problema nella contaminazione. Quello che è inaccettabile è quanto è stato rubato al continente africano dal sistema coloniale.