Del suo esordio, scritto a vent’anni e super best-seller planetario, dichiara “It’s ok”. A proposito del suo ultimo libro, “NW” (Penguin), uscito lo scorso settembre in Gran Bretagna e Stati Uniti e in corso di pubblicazione per Mondadori nella primavera 2013, la trentasettenne Zadie Smith si dice molto soddisfatta. Accolto da critiche contrastanti, il quarto romanzo di Smith è un libro difficile, sia per l’onnipresente flusso di coscienza e la mancanza di una trama lineare sia per la storia un po’ cupa. Omaggio a Londra – a partire dal titolo “NW”, abbreviazione di “North West”, la zona popolare dove l’autrice è cresciuta – è un romanzo che rispecchia i tempi in cui viviamo e il nostro sconforto. Uno sconforto che Zadie Smith ha il coraggio di raccontare e prima ancora di ascoltare: ascolta le voci della città, ne registra i linguaggi, inventa stili e parlate, dai gelidi accenti dell’Oxford English allo slang di strada più marginale. Il risultato è un romanzo “a disagio”, spigoloso e imperfetto, ostico e a tratti strepitoso. Abbiamo raggiunto telefonicamente Zadie Smith a New York, dove trascorre gran parte dell’anno e insegna alla New York University. Parliamo metà in italiano – Zadie ha vissuto a Roma dal 2007 al 2009 – e metà in inglese. Con lei ogni intervista è una battaglia: all’inizio ti contrasta, polemica, poi a poco a poco, si ammorbidisce, abbassa le difese e alla fine è un fiume in piena. Travolgente.
Come nasce “NW”?
Non saprei, non è così semplice. Un libro nasce da uno stato d’animo che provi in un certo momento e vuoi riprodurre.
Perché hai scelto di usare il flusso di coscienza?
Non lo definirei flusso di coscienza, semplicemente qui i dialoghi “parlano” senza l’intervento dell’autore. Ma se leggi “NW” ad alta voce non c’è differenza: è gente che parla.
La Londra che racconti non è più la gioiosa capitale multikulti di “Denti bianchi”, ma una città sull’orlo dell’esplosione, sociale e emotiva.
È una versione meno comica, perché la storia è triste, ma la vera Londra è effervescente come sempre.
A noi interessa la Londra che tu ritrai, non quella reale.
Lo ripeto, questo non è un libro comico, ma ciò non vuol dire che la città descritta nel libro non sia effervescente. Ho letto una recensione su un quotidiano italiano che parla di “fallimento del multiculturalismo”… ma se in un romanzo i personaggi non-bianchi sono infelici significa che il multiculturalismo è fallito? Allora se i personaggi bianchi sono infelici significa che la società “bianca” è fallita? Il problema centrale di “NW” non è razziale, ma di classe: per me la razza è un aspetto della classe sociale. E, al di là di ogni elemento socio-politico, le complicazioni dei miei personaggi sono di natura esistenziale: cosa faccio della mia vita? Questo è amore? Sono felice? Perché si fanno i figli? Chi sono io? Chi è la persona con cui vivo? I miei personaggi non se ne vanno in giro pensando al fallimento del multiculturalismo.
Ho capito. Piuttosto quanto manca all’Italia per diventare una società multiculturale?
Manca. Ci vuole tempo per abituarsi al cambiamento e l’Inghilterra ha avuto molto più tempo di voi. Le persone hanno bisogno di vivere una accanto all’altra, condividere le stesse scuole, incontrarsi in situazioni più easy e non irreggimentate. Questo aiuta molto.
L’ascesa sociale, che alcuni dei tuoi personaggi hanno sperimentato, non sembra portare serenità. Anche tu senti di aver tradito le tue radici entrando a far parte di una borghesia medio-alta?
Sì, sono andata lontano dalle mie radici, ma non penso proprio che sia un tradimento e torno a casa appena posso.
Tutti i personaggi del romanzo sono insoddisfatti e frustrati, per ragioni diverse e a diversi livelli di gravità: si va dalla semplice infelicità di Nathalie al suicidio di Felix. E’ questa l’Inghilterra del New Labour?
Non ne ho idea. Non scrivo personaggi come reazione ai partiti politici. Forse quando la gente comincia ad avere trenta-quarant’anni scopre che la vita è un po’ più complicata che a venti. La vita è più intensa e gioiosa in un senso ma anche più carica di rischi nell’altro. Non puoi più dire: questo lo farò quando sarò grande. Improvvisamente sei grande! Le scelte si assottigliano, e questo può essere frustrante.
Hai scritto un romanzo politico.
Se è un romanzo politico, lo è perché riconosce che la vita delle persone è fortemente limitata e definita dalla classe e che esiste in Gran Bretagna una underclass i cui orizzonti sono limitati dalla mancanza di opportunità adeguate. C’è una middle class in Inghilterra davvero convinta che le persone abbiano “quello che si meritano” e che il fallimento della working class sia il risultato dell’inettitudine e della trascuratezza dei genitori con i figli. Queste stesse persone sono certe che i successi universitari dei loro ragazzi siano merito soltanto alla loro intelligenza! Non capiscono quanto è difficile riuscire nella vita se non si ha una buona istruzione o se la propria famiglia ha reali difficoltà economiche. Sono consapevole che ogni mio successo sia dipeso totalmente dal supporto che ho ricevuto dallo stato – sia concreto che finanziario. Vedere queste “reti di salvataggio” sparire significa vedere migliaia di ragazzini in una situazione simile – o peggiore – della mia, lasciati a cavarsela da soli.
Nel tuo romanzo c’è un ragazzo, il più talentuoso e più bello della scuola. Lo ritroviamo anni dopo: è diventato un barbone fuori di testa.
Se la società fallisce nel supportare le persone, queste avranno sempre l’abitudine a continuare a sbagliare. Nathan, un ragazzo cresciuto senza soldi, avrebbe avuto bisogno del supporto dello stato. Ma i settori pubblici sono sempre di più privatizzati, ed ecco i risultati.
Perché hai scelto di parlare di un senzatetto?
Ci vuole una ragione per parlare di gente che non ha una casa? Molti ragazzini con cui andavo a scuola sono finiti in situazioni così. Sono parte della mia vita, una parte della storia di Londra.
Nel tuo famoso saggio su Obama (In “Cambiare idea”, minimum fax, ndr) avevi scritto che lui ti sembra più uno scrittore che un politico. Cosa ne pensi adesso che è al secondo mandato?
Lo stesso. Penso che sia un uomo intelligente non del tutto adatto alle realtà della politica americana e lo dico come un complimento all’uomo! È meglio tenersi alla larga da chiunque sia completamente a suo agio con la politica americana.
A cosa serve la letteratura? La letteratura può cambiare le cose?
La letteratura non può pianificare cambiamenti, ma nella mia esperienza di lettore, la letteratura allarga il raggio di attenzione e questo a volte può farci reagire in modo più etico nei confronti di ciò che accade nel mondo. In questo momento ad esempio sto leggendo l’incredibile Natalia Ginzburg e non penso sia esagerato dire che le sue “piccole virtù” abbiano cambiato il mio concetto di che cosa sia una virtù. Ma non c’è garanzia. Anche i nazisti leggevano “Anna Karenina” e ascoltavano Bach. Mai sopravvalutare l’effetto civilizzante delle arti liberali…