Per Alan Parker arrivare al festival internazionale della pubblicità a Cannes è un po’ come tornare a casa: “Ho iniziato la mia avventura come copywriter, non avevo ancora vent’anni, volevo scrivere e le agenzie di pubblicità cercavano persone come me. Sono stato accolto in un mondo che non conoscevo, quello della pubblicità, e che mi aveva affascinato perché si diceva fosse pieno di belle ragazze”. A Cannes Parker è stato invitato dal Guardian a raccontare ai giovani pubblicitari che partecipano al Festival della creatività la sua strada “da Soho al Sunset Bloulevard”, quella cioè che lo ha portato a essere prima il più acclamato regista di spot pubblicitari d’Inghilterra e poi uno degli autori cinematografici inglesi più apprezzati e premiati al mondo (i suoi film hanno conquistato ben dieci Oscar).
Dopo dieci anni di assenza dal grande schermo (l’ultimo film che ha diretto è stato The life of David Gale con Kevin Spacey e Kate Winslet) il grande regista inglese è intenzionato a tornare dietro la macchina da presa per un nuovo progetto: “È il primo film, da molti anni in qua, che non ho scritto io, una bellissima storia d’amore. Ma non mi ero ritirato, quindi non sto tornando. Semplicemente non sento il bisogno di fare un film ogni due anni, e mi piace anche fare una vita normale”.
Girano molti aneddoti sui molti film che ha rifiutato negli ultimi anni. Si dice che lei litighi con i produttori prima di iniziare a discutere, proprio per evitare di dover lavorare.
“Sono arrivato vicino a un nuovo film un paio di volte negli ultimi dieci anni ma il cerchio in quei casi non si è chiuso. Ma è vero che mi capita di litigare prima di cominciare, soprattutto con le persone che devono mettere i soldi, il che non è sano. Ma il mondo del cinema è diventato difficile e io ho una certa età, mi stufo di dover parlare di cose che non mi interessano. E non capita solo a me, anche Steven Spielberg ogni tanto si stufa…”.
Ma davvero rifiutò di dirigere Harry Potter?
“Beh, rifiutato non è il termine giusto. Le cose sono andate così: avevo dato una mano alla produzione inglese e allora loro mi avevano organizzato un appuntamento telefonico con i signori della Warner. Mi hanno chiamato, io ho risposto al telefono, ero in cucina a casa mia e dall’altra parte del telefono, a Burbank, c’erano dieci persone, abbiamo cominciato a parlare e a un certo punto uno ha detto ‘ci sono molti registi che vogliono dirigere questo film’ e io ho risposto ‘allora chiedetelo a loro’. Non è stata una risposta molto furba”.
La pubblicità è stato il terreno dove lei ha imparato a fare il regista. È stata un esperienza importante?
“Fondamentale. Quando ho iniziato a lavorare in un’agenzia pubblicitaria era l’inizio di una fase straordinaria, nella quale si producevano i primi commercial per la tv. C’era tanta creatività, idee, invenzioni, era più facile di oggi, non c’era nessuno che ti diceva cosa fare perché era tutto nuovo, nulla era stato fatto prima”.
È stato nel mondo della pubblicità che è cresciuta una intera generazione di nuovi registi in Inghilterra, lei, Ridley Scott, David Putnam, Adrian Lyne, Hugh Hudson…
“Si, alcuni di noi lavoravano in agenzie, altri come Ridley erano indipendenti, abbiamo iniziato insieme, i nostri commercial erano meglio di quelli degli americani e in pochi anni abbiamo conquistato il successo, vinto premi e fatto anche qualche soldo. Anzi, i soldi della pubblicità mi hanno permesso di avere il tempo di trovare qualcuno che volesse produrre il mio primo film”.
Lei ha smesso di dirigere spot.
“Si, ma sono stati una grande scuola. Mi hanno insegnato la disciplina e il ritmo, la capacità di fare attenzione ai particolari e soprattutto quella di non perdere tempo. Quando hai solo trenta secondi ogni attimo è fondamentale, non può essere sprecato. Questo credo mi abbia aiutato a fare dei film migliori”.
Bugsy Malone, Fame, The Committments, The Wall, Evita: la musica ha sempre giocato un ruolo importante nel suo mondo cinematografico.
“Ho sempre amato la musica e ho sempre amato i musical. Credo che l’unione di immagini e suoni, canzoni, coreografie crei una magia straordinaria, qualsiasi sia il genere musicale. Raccontare una storia con la musica è una sfida appassionante”
Evita è stato un grande successo, ma lei non voleva dirigerlo.
“No, Robert Stigwood voleva, perché aveva amato molto il mio lavoro con Fame. Ma io non volevo fare Evita. Allora mi chiamò, mi invito sul suo yacht e qualche ora dopo mi chiese se volevo giocare a tennis. Scendemmo su una qualche isola, giocammo e alla fine lui mi chiese ancora una volta di dirigere Evita. Io gli dissi di no e lui prese a picchiarmi con la racchetta da tennis. Davvero! È così che mi ha convinto”.
Alla fine è stato contento?
“Alla fine sì. Ma lavorare con Madonna non è stato facile. Mentre quando giravo The Committments ogni mattina suonava la sveglia e non vedevo l’ora di andare sul set, con Evita era esattamente il contrario”.
Cos’è che non le piace dei film di oggi? Perché resta lontano dal cinema?
“Diciamo che mi piacciono i film che hanno non solo delle belle storie, ma dei messaggi, un significato. Oggi il cinema non è fatto così, c’è il 3D per fare gli incassi, ci sono gli effetti speciali per divertire il pubblico. E poi sono vecchio, stare tre mesi al lavoro sei giorni a settimana per dodici, quindici ore forse non fa più per me”.
Pensa alla pensione?
“Beh no, e non è perché mi danno i premi alla carriera che autorizzo gli altri a pensare che io mi stia ritirando. Li danno anche a De Niro, ed è decisamente attivo”.