IO LO CONOSCEVO BENE – MASSIMO CACCIARI RICORDA TONI NEGRI: “IL SUO PENSIERO E’ PRASSI: QUANTO PIÙ È RADICALE, QUANTO PIÙ ESIGE DI PROCEDERE AL FONDO DELLA COSA, TANTO PIÙ È OBBLIGATO A MANIFESTARE IL PROPRIO PUNTO DI VISTA, LA PROPRIA PARZIALITÀ. NON ESISTE OBBIETTIVITÀ ASTRATTA NEL MULTIVERSO DELL’AGIRE UMANO: VIVENDO AL SUO INTERNO SEI CHIAMATO A DECIDERE DA CHE PARTE STARE – E IL PENSIERO, SE È, È CRITICO NELLA SUA ESSENZA. IL CONCETTO DI DEMOCRAZIA VIVE SOLTANTO SE MANTIENE APERTA LA DIALETTICA CON IL SISTEMA ‘COSTITUIT.
Estratto dell’articolo di Massimo Cacciari per “la Stampa”
È morto un filosofo di rilievo internazionale, uno dei pochissimi italiani contemporanei a esserlo, amico e collaboratore dei Deleuze, dei Matheron, dei Guattari, autore di opere che hanno segnato la discussione politica come Empire, pubblicato con Hardt dalla Cambridge University Press nel 2000 e tradotto in tutte le lingue (in Italia per Bur con il titolo Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione). Augurabile che tutti coloro che vorranno parlare della scomparsa di Toni Negri lo sappiano e lo ricordino, augurabile che gli interventi sulla sua fine non si riducano alla miserabile misura delle cronache nostrane.
Se si dovrà, come anche si dovrà, parlare della sua storia politica, che ciò avvenga all’altezza delle tragedie dell’epoca che ha, e abbiamo, attraversato tra anni Sessanta e Ottanta, senza tirare ancora in ballo le follie giuridico-storiografiche di chi lo indicò come ispiratore, se non addirittura “grande vecchio”, del terrorismo brigatista. Follie che gli costarono anni di galera e di esilio – e ad altri anche peggio.
Certo, il pensiero di Toni Negri è prassi. Ma nel senso profondo che il pensiero quanto più è radicale, quanto più esige di procedere al fondo della cosa, tanto più è obbligato a manifestare il proprio punto di vista, la propria parzialità. Non esiste obbiettività astratta, […] impossibile là dove il proprio oggetto siano le forme di vita, il multiverso dell’agire umano, delle sue intenzioni, dei suoi desideri. Vivendo al loro interno per conoscerle tu sei chiamato a deciderti – a decidere da che parte stare […]
Era l’atteggiamento fondamentale, e che appartiene per me all’autentica filosofia, proprio di Negri […] Il pensiero, se è, è critico nella sua essenza. E cioè sta per natura dalla parte del “potere costituente” (Il potere costituente, Carnago, 1992), del potere che eccede ogni status quo, ogni determinazione statuale-istituzionale. Il concetto di democrazia vive soltanto se connesso a questa dimensione del potere, se mantiene viva, aperta la dialettica tra il sistema “costituito” e il movimento creativo e imprevedibile che incalza dalla moltitudine.
[…] Moltitudine viene qui chiamato il proteiforme soggetto, il demos globale che l’Impero espropria di ogni “bene comune”, imprigiona nelle “leggi” dello scambio e del mercato, ma che tuttavia manifesta, per Negri, reali potenzialità rivoluzionarie, non solo capacità di mobilitazione (di “sommossa” avrebbe detto Marx). Soggetto del “potere costituente” era la classe operaia, che si organizza “eccedendo” il suo essere fora-lavoro, per l’operaismo degli anni Sessanta […] Stagione chiusa con la grande trasformazione organizzativa, tecnologica, politica del capitalismo globale, dopo la fine della Guerra fredda. […]
Il pensiero rivoluzionario è destinato a divenire puramente escatologico, oppure è ancora in grado di informare di sé un potere costituente reale? Impossibile, risponde Negri, che possa finire. E qui si rivela il suo essere filosofo – impossibile perché appartiene alla nostra natura volere, volere inesauribilmente soddisfare il conatus che ci agita sempre (malgrado tutti i tentativi di metterlo a tacere): essere attivi, agire incondizionati, o condizionati soltanto dal nostro amore per l’altro, lavorare nel senso del creare, considerando la natura e i prodotti del nostro lavoro come beni comuni.
Il filosofo di questa idea radicale di democrazia è Spinoza – ma non solo lo Spinoza sovversivo del libro del 1981 (Anomalia selvaggia, Feltrinelli), anche quello della Parte V dell’Ethica, dell’amore intellettuale di Dio, dell’eternità, che Negri affronta in saggi successivi. Così scrive in una delle sue pagine più intense, del 1993: «L’idea di democrazia e quella di eternità si toccano, si misurano l’un l’altra».
Sì, ne sono certo, è qui il punto in cui si deciderà (o già è tutto deciso?) se globalizzazione può significare soltanto la religione dell’indefinito progresso da scopo a scopo, l’Impero delle grandi potenze economico-finanziarie fagocitante in sé ogni altra sovranità, oppure se invece dal suo stesso interno possono determinarsi contraddizioni tali da produrre nuovi soggetti e nuove prassi rivoluzionarie all’altezza della “rivoluzione” in atto nei rapporti sociali e di produzione.
Se questi nuovi soggetti emergeranno, il loro pensiero non potrà che muoversi in quel solco: concepire la democrazia come quel potere sempre costituente che vuol dar ragione dell’affermazione del valore eterno
Con queste parole, quattro anni or sono, concludendo Storia di un comunista 3 – Da Genova a domani, Toni parlava con serenità della propria morte
Mi sembra talora di essere completamente estraneo al mondo che mi sta attorno. Curiosa sensazione per qualcuno che ha riempito tre volumi di una storia di intensa immersione nell’esistente. Probabilmente, mi dico, avviene perché sono vecchio – per quanto mi agiti nel cercare di tenere aperta la comunicazione con amici più giovani e svegli, la mia percezione è ottusa. Poi però mi chiedo: non può darsi che questa mia considerazione del mondo e questa convinzione di estraneità non siano vere? Vere? Intendo che quella percezione di estraneità non dipenda da me, dalla mia insufficiente o ridotta attenzione, ma che il mondo che mi circonda sia davvero brutto e inconsistente. Non sarà che alla mia fiducia nell’essere, alla mia ammirazione per quello che è vivo, non corrisponda più qualcosa che si possa amare?
Brutto, bello, vivo, amato… sono aggettivi di difficile definizione e di altissima relatività. Forse allora, per confermare il mio dubbio, a questi termini non dovrei affidarmi. Forse l’unico aggettivo che vale, fra i molti che fin dall’inizio utilizzo, è “estraneo”. Un effetto di straniazione è quello che provocano in me linguaggi e umori, non importa se individuali o collettivi, che risuonano nella società, fuori di me. Penso di esser sordo e di sentire suoni confusi. In realtà, un po’ sordo sono ma i suoni confusi non li sento con l’orecchio ma con l’anima, con il cervello. Mi sfugge il mondo attorno. Ho avuto una lunga vita, ho conosciuto contraddizioni enormi e conflitti mortali, sempre tuttavia sapevo di che si trattava, gli elementi della contraddizione e del conflitto stavano dentro un quadro noto, comunque significante – perché allora il significato degli eventi che oggi si dànno attorno a me s’iscurisce e mi sfugge? In cosa consiste la loro insignificanza? A rappresentare questa estraneità c’è un mondo nuovo. Un mondo nuovo ma affaticato, prostrato davanti alle difficoltà fisiche, politiche e spirituali, della propria riproduzione. Difficoltà economiche e caduta di referenti politici, collettivi, di riferimenti di valore. La comunicazione è divenuta frenetica ma i significanti si scolorano nella velocità. C’è confusione negli spiriti. C’è corruzione nei linguaggi. I vecchi riferimenti di lotta sono scomparsi: destra e sinistra, sindacati e partiti, senso e significato della storia… questo è il mondo attorno a me. Non dipende dalla mia vecchiaia, dalla mia stanchezza: è così.
Quando rifletto su questa fenomenologia del presente, quanto più affino lo sguardo, tanto più l’unica, la sola figura valutativa e descrittiva che mi sembra investire il mondo dei significati e permettere di descriverlo, è quella del nihilismo. I segni mancano di significato, i visi mancano di sorriso, i discorsi sono vuoti. Non sappiamo di cosa parlare. Vedo sul viso altero dell’interlocutore una smorfia – è sempre la stessa che trovo in gran parte dei miei interlocutori. Sicché è gran festa quando se ne trova uno indenne da questa patologia. La gente è disperata. Quando ripenso a coloro che ai miei tempi, ormai antichi, hanno sviluppato concezioni nihiliste per la loro filosofia, ed hanno spesso concluso, nella krisis, al pessimismo ed all’attesa della catastrofe (ed i miei lettori sanno con che continuità e con quale asprezza li abbia combattuti) – tuttavia quando ripenso a loro, quasi mi commuove ora la loro malattia che era consapevole e sofferta. Mentre ho oggi difronte a me personaggi la cui etica è nihilista e catastrofica, non come risultato di un lavoro critico ma perché la loro esistenza è senza consistenza, anche quando, frequentandoli, sembra che vivano una vita qualunque. Sono senza passioni, in realtà, sono senza significanti, sono senza fede – per ben che vada pensano che il linguaggio debba essere depurato, lavato e rilavato e condotto a purezza significativa – la purezza del secchiaio dentro al quale hanno fatto le pulizie. Gettano davvero il significante con l’acqua sporca del bagno. Gli resta quell’ideale di purezza – il “reine“della ragione, della sensibilità, del concetto – che è diventato aggettivo del vuoto, del mero resto dopo lo svuotamento dell’essere. Quando mi guardo attorno mi sento circondato da questi zombie, da milioni di zombie.
È davvero nuovo questo mondo? Certo, si è affermato da poco, è in crescita, presto questo “nuovo” occuperà tutto. Ma non è nuovo. Ho 85 anni. Fino ai miei 25-30 questo “nuovo” mondo c’era, in forme solide ed efficaci, il mondo dell’infra due guerre e del secondo dopoguerra. Era quello che mi ha oppresso e contro il quale ho combattuto. Lo avevamo messo in soffitta e parzialmente distrutto, ora ricompare egemone, questo mondo vecchissimo. È quello fascista della mia infanzia e giovinezza. Era il mondo nel quale “patriarcato-sfruttamento capitalista-sovranità della nazione” investivano, da padroni, la vita e la testa della gente. E tradivano la generosità e l’intelligenza dei giovani per indurli a illusorie avventure: il patriottismo, la nazione, la razza, l’identità, la mascolinità erano assunti come valori superiori. Si chiama fascista questo mondo, non solo conservatore ma reazionario, non solo religioso ma fanatico nel distruggere ogni libertà. Un mondo dove la fatica di vivere dominava su ogni altra passione e una greve disciplina costringeva le anime all’insensibilità nel dolore. L’oppressione spingeva all’insignificanza. È ridivenuto così il mondo presente?
Ma se è così, come potranno leggermi, come potranno comprendermi i ragazzi di oggi? Il mio libro sembrerà loro affondare in lontane profondità, difficilmente accessibili. Sarà per loro un documento archeologico. E il mio editore, perché deve pubblicare questo testo al massimo degno di archivio? C’è ancora un numero sufficiente di vecchietti che apprezzerà questo racconto e ringrazierà l’editore per averlo pubblicato?
Quando – non è passato molto tempo – un orrido personaggio fascista è asceso alla Presidenza di un grande paese, il Brasile, ad alcuni giovani amici che chiedevano: “Che cosa possiamo fare? Come comportarci per resistere?”, ho risposto: “Non abbiate paura”. È la condizione per costruire una grande ed efficace resistenza. Il fascismo si regge sulla paura, produce paura, costituisce e stringe il popolo nella paura. Non aver paura: questo è quanto bisogna esser capaci di dire alla gente, fra la gente, nella moltitudine che oggi soffre il ritorno della barbarie fascista, anche da noi, sotto il nostro sole. Non aver paura di spezzare la prigionia del linguaggio vuoto che ci viene imposto e di ridere dell’autorità, ovunque si presenti con la grottesca maschera fascista. Non aver paura significa liberare le passioni e così riempire quelle forme linguistiche che il processo di assoggettamento fascista ha lasciato vuote. Sembra che il secolo si sia oscurato: respingere la paura, produrre resistenza, è prima di tutto dissipare le ombre, riconquistare senso delle parole. Riempirle di cose, di realtà, di libertà. Soggettivarle. Ma l’operazione principale consiste nel riconoscere che il fascismo è sempre quello, è sempre ripetizione della violenza per bloccare la speranza, è il vecchio – i disvalori assoluti del patriarcato, della violenza dello sfruttamento e della sovranità – che viene riproposto illusoriamente per imporlo come necessità dello spirito ed obbligo della morale mentre è fondamento di una cultura di morte. “Viva la morte”, è la parola d’ordine del fascismo.
“Viva la vita”, è la risposta di chi non ha paura. Tornerà la primavera – ritorna sempre! Il fascismo sembra eterno ed in effetti (pur breve) sembra una troppa lunga pena – ma è fragile, il fascismo. Scontrandosi con la passione del vivere liberi, quanto poco può tenere. La libertà si impone necessariamente contro il fascismo, perché con la libertà staranno le altre passioni politiche forti, come quella per l’eguaglianza e quella per la fraternità. Tornerà la primavera e sarà una vera stagione del nuovo. Perché se il fascismo è sempre uguale, la primavera della libertà è sempre nuova, sempre diversa, sempre piena di doni.
Guardate al passato, guardate di nuovo alle grandi stagioni di lotta. Potremmo andare tanto indietro… due esempi bastano. Il 1848 e il 1968 sono date che per la mia generazione sono state fondamentali. La prima, l’inaugurazione del socialismo in Europa, dentro e contro lo sviluppo delle contraddizioni venute dalla rivoluzione francese e dalla maturazione dell’accumulazione capitalista. Da questo incontro era sgorgato l’antagonismo di libertà contro eguaglianza e quello di eguaglianza come fraternità dei popoli versus libertà come nazionalismo e sovranismo. I reazionari sempre da una parte, fissi, bloccati nella difesa dei loro privilegi; i rivoluzionari che per la prima volta innalzavano la bandiera rossa della fraternità fra i popoli. Un secolo di lotte feroci è seguito al ‘48. Il socialismo si è affermato, è stato poi sconfitto, ha comunque lasciato un’enorme eredità di beni pubblici, meglio detto, di “comune” per le nuove generazioni. È su questo terreno di innovazione e di potenza, che si è aperto il ’68. Il “comunismo” è stato il suo orizzonte. Si trattava di rendere comune quello che era pubblico, di ottenere più comune dal pubblico conquistato nel gioco democratico. Il frutto del socialismo andava moltiplicato.
Ci siamo stati dentro e ci staremo dentro a questa battaglia, nostra e dei nostri figli. È stata nuova quella ventata di volontà democratica che ancora una volta ha messo sottosopra il mondo. E si ripete: ogni dieci anni, più o meno, abbiamo grandi episodi, diffusi e diffusivi, di rivolta. I cicli Kondriatev sono finiti. I cicli di soggettivazione del comune hanno preso il sopravvento. Ogni volta adeguando la resistenza al superamento di ostacoli predisposti da una repressione divenuta ormai “scienza di governo”. Ogni governamentalità è un’operazione capitalista, sovrana, per bloccare e imbragare i movimenti produttivi del lavoro vivo. Gli risponde un rinnovato attacco da parte dei movimenti dei cittadini-lavoratori ed una capacità di mettere a frutto le conquiste ottenute.
Guardiamolo con attenzione, questo gioco che dopo il ’68 si è messo in atto. Resistenza dei lavoratori per conquistare la soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni, poi repressione. Ma riesce la repressione a raggiungere l’obiettivo di bloccare l’azione sovversiva? Spesso fummo costretti a dare risposta positiva a questo interrogativo. Ma anche quando il movimento sovversivo sia bloccato, andiamo a vedere se davvero la lotta abbia avuto una risultante negativa (o relativamente tale). Ebbene, non è così. Le riforme che le lotte, anche perdenti, accumulano, sono importanti, sono un aumento del “comune” nelle mani delle moltitudini del proletariato. Attenzione a vecchie voci che vengono dal passato: significa, la positività di questo processo, che si deve essere “riformisti” nella conduzione del movimento? Assolutamente no. I riformisti non accumulano nulla di comune, accumulano solo sconfitte e demolizioni del comune, collaborano alla governance capitalista e insozzano e pervertono le lotte. Di contro, solo le lotte di resistenza che divengono sovversive, accumulano la ricchezza comune e la suddividono fra istituzioni del comune. Circondati da istituzioni del comune, un certo progresso lo abbiamo conquistato per la nostra vita e per quella dei nostri figli. Lo testimonio volentieri nella mia vecchiaia.
Ma per tenere aperto questo dispositivo del “comune”, della sua conquista e della sua accumulazione, la storia delle lotte ci insegna che dobbiamo organizzarci. Ho passato la vita provando a risolvere questo compito. Non credo di esserci riuscito – vale a dire, a scoprire una formula organizzativa che avesse l’efficacia del “sindacato” nella Seconda Internazionale o del “soviet” nella Terza. Abbiamo identificato il terreno della moltitudine come insieme di singolarità, operante come sciame, come rete, probabilmente organizzabile in una vera democrazia diretta. Non siamo tuttavia mai riusciti ad andar oltre esperienze “in vitro“. Ma la strada è quella e già percorrerla permette alla dialettica di resistenza e sovversione, di destabilizzare il potere nemico e di destrutturarne il sistema produttivo, quindi di disporsi alla conquista del comune e alla costruzione di istituzioni del comune. La strada da percorrere è ancora lunga e i vuoti di organizzazione, i tempi vuoti dell’impresa sovversiva, si pagano.
Ci scontriamo con un fascismo risorgente. Sappiamo che la lotta si fa difficile. Non abbiamo paura. Stiamo sulla linea del fronte. Pensiamo che la nostra resistenza è efficace. Ma bisogna prepararsi alle estreme conseguenze alle quali il fascismo può arrivare: la guerra. Chi ha vissuto la guerra, chi l’ha subita, sa che la guerra è, è stata e sarà un’irresistibile macchina di distruzione. È questa volta, dell’umanità intera, dati i mezzi bellici di cui le grandi potenze capitaliste possono servirsi. Guerra fra potenze = distruzione delle radici dell’umano. Il fascismo può produrre questo disastro dell’umano, questo massacro della sua storia sul pianeta. Combattere il fascismo è quindi battersi in favore dell’umano. Senza mai dimenticare che il fascismo è capace di distruggerlo, quando avverte che le regole patriarcali della società, la struttura del comando per lo sfruttamento, e la sovranità del proprio interesse nella forma politica dello Stato, sono messi in pericolo. Concentriamoci su questo punto ed organizziamoci per non subire la decisione di guerra di un capitale incrociatosi al fascismo. Evitare la guerra, combattere e vincere sul capitale senza passare attraverso la guerra è il nostro compito. Come fare? Il pacifismo sarà la nostra arma perché la pace è il nostro desiderio.
Ho vissuto e subito il fascismo. Il mio cuore è offeso e il mio cervello traumatizzato quando ripenso quella esperienza. Ho vissuto poi, dal ’68 ad oggi, senza paura del fascismo. I crimini che gli venivano imputati, la Shoah in primo luogo, impedivano che fosse nuovamente desiderato, la gran massa delle popolazioni sembrava averlo definitivamente ripudiato. Solo i funzionari della sovranità riuscivano ad accompagnare nel ricordo (e ad essere conniventi nelle pratiche) quelle condotte criminose – talora rinnovandole. La repressione del ’68 europeo ne fu un esempio. Io comunque non ho mai avuto paura, ho solo sviluppato disprezzo per quei delinquenti. Oggi la cosa è diversa: una nuvola di fumo solforoso, un’atmosfera spessa, impossibile da attraversare con lo sguardo, ci circonda. Il fascismo è ubiquo. Dobbiamo ribellarci. Dobbiamo resistere. La mia vita sta andandosene, lottare dopo gli 80 diviene difficile. Ma quel che mi resta dell’anima, mi conduce a questa decisione.
Nella resistenza al fascismo, nel tentativo di rompere questo dominio, nella certezza di riuscirci, questo libro è stato scritto. Non mi rimane, amici miei, che lasciarvi. Con il sorriso, con dolcezza, dedicando queste pagine, questi tre volumi che sto concludendo, a quegli uomini virtuosi che nell’arte della sovversione e della liberazione mi hanno preceduto, e a quelli che seguiranno. Abbiamo detto che sono “eterni” – l’eternità ci abbracci.