Metà della sua faccia, come se fosse stata strappata via, la sua faccia non c’era più, al suo posto una poltiglia, di ossa e sangue: è questo quello che vede Kevin McCarthy che è il primo ad accorrere, lui con la sua macchina era davanti, lui l’impatto lo ha sentito, ha svoltato, è arrivato, e nel buio coi fari illuminato quelle lamiere, quell’automobile piegata, e là dentro c’è Montgomery Clift. Terrificato, pietrificato, McCarthy nemmeno grida, risale in auto e corre dove erano appena andati via, a casa di Elizabeth Taylor, entra e chissà come glielo avrà detto, che parole avrà usato, avrà urlato, o gliel’avranno letto nella sua smorfia di orrore che era successo qualcosa, di grave, e Rock Hudson, e Elizabeth Taylor scappano, come pazzi, si precipitano, e la testa di Montgomery Clift è incastrata sotto il volante, Rock Hudson la tira fuori, lo tira fuori, e Clift è vivo, la Taylor lo prende, lo sente respirare, rantolare, e in quella polpa di carne Liz senza starci a pensare infila le dita dentro quella che pare una bocca, e tira fuori i denti che nello schianto a Clift s’erano staccati, e incastrati in gola.
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Liz gli salva la vita, ma che vita? Quella che ho appena descritto non è la scena di un film, è successo, sul serio, la notte del 12 maggio 1956, e Montgomery Clift insieme a McCarthy, Hudson, era a cena da Elizabeth Taylor. Clift si mette alla guida, forse è ubriaco, e con la sua Chevrolet si schianta contro un palo. I medici lo salvano, gli ricostruiscono il viso, in modo quasi perfetto, e dopo mesi Clift torna sul set de L’albero della vita, il film che stava girando con Elizabeth Taylor, e gli spettatori dallo schermo, nei cinema, non si accorgono, del viso diverso di Clift. Non se ne accorgono perché erano 5 anni che Montgomery Clift non girava un film, eppure, chi Clift se l’è vissuto, sa che dopo quel botto lui era invecchiato. Dentro. Crudelmente. I biografi, i giornalisti, del tempo, di oggi, parlano del più lento suicidio della storia di Hollywood, ma Clift disintegrò se stesso non nell’incidente ma in tutto l’alcool che beveva. Montgomery Clift – nato esattamente 100 anni fa, a Omaha, Nebraska, concittadino di Marlon Brando, di Fred Astaire – era sì un alcolista ma un attore di quelli che non usano più, non ne trovi più, uno che a descriverne intensità, bravura, i termini giusti li devono ancora coniare. Chissà che demoni si portava dentro, Monty Clift, che dalla sorte aveva avuto tutto, non solo un viso e una bellezza fisica disarmanti, ma pure la ricchezza, lui rampollo di famiglia facoltosa, che gli fa frequentare ottime scuole, e fin da piccolo lo porta in Europa, per fargli parlare francese, e tedesco, e conoscere la storia dell’arte non sui libri. Sembra incredibile ma a 15 anni Montgomery Clift è già a Broadway, e le sue prime prove attoriali lo vedono splendere sulle pagine di Noël Coward. Un talento innato, e una intelligenza e un acume che gli fanno subito annusare il nuovo metodo dell’Actor’s Studio, sommati a un istinto a starsene lontano da Hollywood e dalle sue infide lusinghe. Con la forza delle sue decisioni, Clift era all’avanguardia in libertà artistica, dacché non ha mai voluto un agente né contrattualmente legarsi a uno studios, come si usava al tempo: lui firmava un contratto per ogni film, e registi e produttori facevano a gara per averlo, almeno finché l’alcool non gli ha via via tolto lucidità e averci professionalmente a che fare era supplizio, e inconcludenza (sui set, ubriaco fradicio, Clift non ricordava le battute, ed era intrattabile, e collerico).
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Molti sostengono che Montgomery Clift era tormentato dalla sua omosessualità inconfessata e inconfessabile, negli anni ’70 sono uscite due biografie, una a firma di Robert LaGuardia, l’altra di Patricia Bosworth, che lo ribadiscono dalla prima all’ultima riga, e però, due anni fa, ci ha pensato suo nipote Robert a dare a zio Montgomery una chiave diversa, a tracciare un solco tra quello che gli altri pensavano di Clift e quello che Clift era davvero. In Making Montgomery Clift, si scopre e si delinea un Clift felice di viversi liberamente e privatamente e non promiscuamente la sua omosessualità, seppur braccato da un gossip cattivo e perpetuo che lo colpiva nella mancanza di legami etero ufficiali (al contrario di altri suoi colleghi omosessuali, Clift rifiutò bianchi matrimoni di copertura, e uno addirittura con una più che disponibile e innamorata persa Olivia de Havilland, sua partner ne L’ereditiera). Possiamo dar credito a Making Montgomery Clift poiché è basato su registrazioni familiari originali, e in una addirittura si sente la voce della mamma di Clift, che parla con totale normalità dell’omosessualità del figlio, a lei evidente fin dalla pubertà? O forse ha ragione chi racconta di un Clift non omo bensì bisex, e amante di donne più grandi di lui, e tra queste cougar spicca la di 16 anni di lui più ‘anziana’ Libby Holman, attrice, e ricca vedova di un marito dicono da lei ammazzato? Ed è vero che Clift ha rifiutato il ruolo poi andato a William Holden in Viale del Tramonto, appunto per non alimentare pettegolezzi?
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Arrendiamoci: la verità su Montgomery Clift non la sa nessuno, e egli stesso parlava di sé precisando chi lui non fosse: “Io non sono un membro della Beat Generation, non sono un arrabbiato, non sono un ribelle. Io non voglio essere un simbolo, la testimonianza di qualcosa”. Montgomery Clift affascina per la sua intoccabile libertà, e il suo rifiuto di ogni celebrità: Monty andava a Hollywood solo per fare film – e che film! – film recitati a intervalli di anni, intervalli voluti da Monty, riempiti da impegni quali andare a vivere in un kibbuz israeliano. Monty era ricco ma per scelta viveva a New York in un bilocale modesto, in affitto, dove si chiudeva giorni interi a leggere romanzi russi, il New Yorker, libri di storia, e di economia, ma pure Aristotele. Materie su cui poteva conversare con menti del calibro di Tennessee Williams, la stessa Liz Taylor, che stupida non era (e che gli fu sempre amica fedele sfidando produttori e registi che Clift non lo volevano più ingaggiare a causa del suo alcolismo, e si narra di una Taylor capace di sputare in faccia al regista Joseph Mankiewicz, sul set de Improvvisamente l’estate scorsa, reo di aver detto non so cosa contro Monty) non certo la prima sciacquetta, o sciacquetto, gli ronzasse intorno.
*Il virgolettato è tratto da: Anne Helen Petersen, Scandals of Classic Hollywood: The Long Suicide of Montgomery Clift, in Vanityfair.com, 23/09/2014; in copertina: Montgomery Clift con Liz Taylor