L’alba non ha le dita rosate ma il volto da iena: la luce dilania, misura il tempo, l’inesorabile, che scorre, lapidandoci. Il tempo è un dettaglio che il corpo misura come un metronomo tremendo. Diamoci soltanto al piacere, allora; a letture fondamentali, almeno, perché i verbi diano alla nostra carne amazzonie, pitoni, giaguari. Ogni tanto, così, tra i flutti del caos, lancerò dei libri. Inattuali, inutili, mi auguro, intrepidi. Il primo è Lettere sulla follia di Democrito di Ippocrate, che cito secondo l’edizione stampata da Liguori nel 1998, a cura di Amneris Roselli. Il bello, in quel caso, è la sovversione del senso della parola follia. Ritenuto folle dai concittadini, gli abitanti di Abdera, in Tracia, Democrito, il filosofo, è affidato alle cure del più importante medico del tempo, Ippocrate. Il quale, dopo aver chiacchierato con il filosofo, ne capisce il carisma, il cardine della pazzia presunta, la crudele purezza degli intenti: “Sono venuto da te, Democrito, per somministrare elleboro a un folle… ma non appena ti ho incontrato, ho riconosciuto non l’opera della follia, ma di una capacità di comprendere pressoché totale, ed ho biasimato come folli coloro che mi hanno portato da te”.
Come si sa, Democrito è ripreso da Epicuro e da Lucrezio, è interpretato come il primo uomo di scienza dell’antichità. Esagerazioni: sarebbe come dire che Talete, per cui il principio primo era l’acqua, è il primo idraulico della storia. Democrito “fu istruito nelle dottrine teologiche ed astrologiche”, investì le sue risorse per viaggiare, “recandosi in Egitto dai sacerdoti per apprendere la geometria, dai Caldei in Persia, al Mar Rosso. Alcuni narrano che egli praticò i Ginnosofisti nell’India e che si recò pure in Etiopia”. Sapeva riconoscere i segni, viveva “per alcuni periodi in luoghi deserti, perfino soggiornando tra le tombe”, era ritenuto profeta: “Acquistò rinomanza per aver predetto il futuro, da allora fu circondato da fama quasi divina”. Conosceva l’uomo a tal punto da preferire la solitudine, alla proprietà privata anteponeva le regole dell’ospitalità, aveva scarso rapporto con le economie di questo mondo: “quando si trattò di dividere le sostanze paterne, volle per sé la parte minore… non si curò della fama… viveva in estrema miseria”. Che Platone volesse “dar fuoco a tutte le sue opere” è significativo riguardo alla diffusione delle teorie di Democrito. “Sono sempre irragionevoli le speranze degli uomini non intelligenti”, dice Democrito, citato da Stobèo.
Seneca storpia il riso di Democrito in quieta morale: “Occorre saper sdrammatizzare ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un uomo ridere della vita che piangerne”, scrive nel suo candido pamphlet, La tranquillità dell’animo. Più interessante la riflessione di Montaigne in una pagina dei Saggi dedicata alla contrapposizione tra Democrito, che “stimando vana e ridicola la condizione umana si mostrava in pubblico solo con volto beffardo e ridente” ed Eraclito, il quale “avendo pietà e compassione di questa stessa nostra condizione, ne aveva il volto sempre rattristato e gli occhi pieni di lacrime”. Al severo pianto di Eraclito, Montaigne preferisce il riso cinico di Democrito, “non perché sia più piacevole ridere che piangere, ma perché è più sprezzante e ci condanna più dell’altro”. La risata inchioda la nostra buona volontà – o la nostra volontà di potenza – al ridicolo, “le cose di cui ci si burla, le si considerano senza pregio”, continua Montaigne, “non siamo tanto miserabili quanto vili”.
Al grande medico giunto da lui con un rimedio per il suo male, Democrito oppone una postura etica, una poetica dell’esistere. Il riso beffardo di Democrito è reso con particolare malizia in un quadro di Antoine Coypel, del 1692: soltanto un uomo che ha incendiato tutto, che riconosce il vuoto ad ogni passo, transfuga dal labirinto delle apparenze, può ridere delle vane ambizioni altrui, dell’accapigliarsi, del consueto ciclo di vita-copula-morte, del parassitismo delle civiltà. Siamo sanguisughe del niente, infine, e non resta che sedersi e ridere in faccia al prossimo. Che estremismo beato, quello di Democrito. (d.b.
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Il testo è tratto da: Ippocrate, “Lettere sulla follia di Democrito”, Liguori Editore, 1998, a cura di Amneris Roselli
Allora egli riprese il suo comportamento abituale e scoppiò in una fragorosa risata, poi restò in silenzio. Io gli chiesi: “Di che cosa ridi, Democrito?”. Gli Abderiti che guardavano da lontano si battevano la testa o la fronte, o si strappavano i capelli. E infatti, come dissero in seguito, rideva ancora più del solito. Lo interruppi e “Democrito”, dissi, “primo tra i saggi, io desidero sapere la causa per cui ti succede questo: non credi che sia inopportuno ridere della morte di un uomo, di una malattia, del delirio, della follia, della melanconia, di un’uccisione o di peggio ancora o, al contrario, di nozze e feste, nascite, dei misteri, delle magistrature, degli onori o di qualsiasi altra cosa buona? Tu ridi di ciò di cui bisogna piangere e deridi ciò di cui bisogna rallegrarsi: per te non c’è distinzione tra bene e male”.
“Dici bene Ippocrate”, disse, “ma non conosci ancora la causa del mio riso; quando la conoscerai, lo so bene, riporterai nel tuo bagaglio una terapia miglior della tua ambasceria prendendo il mio riso come medicina per la città e per te stesso… Io rido solo dell’uomo, pieno di stoltezza, vuoto di azioni rette, infantile in tutte le sue aspirazioni, che dura le peggiori fatiche per non ricavarne alcun vantaggio, che con i suoi desideri smisurati percorre la terra fino ai suoi confini e penetra nelle sue immense cavità, fonde l’argento e l’oro e non smette di accumularne, si affanna ad avere sempre di più per essere sempre più piccolo. Non si vergogna di essere ritenuto felice perché scava le profondità della terra con le mani di uomini incatenati: di essi alcuni muoiono sotto crolli di terra, altri, in lunghissima servitù vivono in quella prigione come nella loro patria… Alcuni comprano cani, altri cavalli, altri, ponendo i confini, segnano come loro un grande territorio e mentre vogliono essere padroni di molta terra non lo sono neppure di se stessi. Si danno da fare per sposare una donna che poco dopo allontanano, amano e poi odiano, generano figli con desiderio e li cacciano una volta che sono cresciuti. Che cos’è quest’ansia vuota e irragionevole per niente diversa dalla follia? Combattono con quelli della loro stessa stirpe; invece di scegliere la pace, si tendono tranelli, uccidono i loro re… Se non possiedono beni desiderano possederne; quando li hanno li nascondono, li rendono invisibili. Io rido di coloro che si danno pena, e rido ancora di più per quelli a cui capita qualche sventura perché hanno trasgredito le sacre leggi della verità e gareggiano nell’odio reciproco… Trasformano in ricchezza cose di nessun valore e senz’anima, comprano statue investendo tutto il loro patrimonio, perché ‘sembra che la statua abbia la parola’, ma odiano quelli che parlano davvero. Se abitano la terra desiderano il mare, e se abitano su un’isola agognano la terra ferma; stravolgono tutto per il loro desiderio. Sembra che in guerra lodino il coraggio, ma nella vita di ogni giorno vengono vinti dal piacere, dall’avarizia e da tutti i mali di cui sono malati… Sei davvero ottuso e molto lontano dal mio modo di pensare, Ippocrate, se nella tua ignoranza non cerchi la misura dell’imperturbabilità e del turbamento. Nella loro follia, essi sono illusi dalle cose comuni, che considerano salde, giudicando senza tener conto del loro movimento disordinato. Dimentichi di tutti i mali che continuamente li colpiscono e desiderando di volta in volta cose che producono dolore, mentre vanno in cerca del loro danno sono travolti in molte sventure. Se uno si preoccupa di fare ogni cosa secondo le sue forze, conserva la sua vita inconcussa, conoscendo a fondo se stesso e comprendendo chiaramente qual è la sua composizione”.