Quando si legge un libro, bisogna farlo in silenzio.
Solitamente, quando leggo un libro, parto dall’analisi delle sue singole componenti, il linguaggio, lo stile, l’andamento ritmico, le suggestioni, poi al limite anche la trama, i personaggi, l’atmosfera, la tenuta finale; cerco di indagarlo per bene nel suo complesso, per arrivare a calibrare al meglio l’impressione che resta, quando, una volta girata l’ultima pagina, lo lascio lì a riposare sul comodino per qualche giorno, settimana, anno.
Alla fine, solo alla fine, trascorso il tempo necessario alla sedimentazione, mi azzardo a formulare un piccolo “giudizio”, capisco cioè se il libro mi è piaciuto o meno, mi spingo addirittura a dire se è bello.
Ecco, con l’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, La stranezza che ho nella testa, recentemente edito da Einaudi, non è successo niente di tutto questo. Il mio approccio al testo, come solo pochissime volte mi succede, è stato quasi completamente invertito, e non mi vergogno affatto a dirlo, anzi.
Ho preso in mano La stranezza, e prima ancora di aprirlo, prima ancora di leggere l’epigrafe, l’incipit, persino la bandella, la quarta di copertina, ho deciso che era un bel libro.
Tutto il mio impegno, nelle quasi 600 pagine di romanzo, è stato genuinamente volto a dimostrare che sì, effettivamente la mia prima impressione era assolutamente corretta.
Una prima impressione, devo dire, non certamente immotivata. Trovo che Il museo dell’innocenza, quello che potremmo definire il capolavoro dello scrittore turco, Premio Nobel nel 2006, sia uno dei romanzi più densi, intelligenti, strutturalmente perfetti e stilisticamente innovativi dell’intero Novecento letterario. L’ho letto tanti anni fa, e ancora mi tornano alla mente intere pagine, in maniera molto vivida, delicata. Da lì, ho preso ad appassionarmi alla scrittura di Pamuk, alle suggestioni di Istanbul, alla piacevolezza inaspettata di una certa magniloquenza del pensiero, di un certo indugio descrittivo, di una narrazione prospettica che continua a sgusciare in tanti lati, come una piovra della parola, come un demone della prosa tentacolare.
Così è stato anche per La stranezza, che è una sorta di reportage romanzesco e di compendio filosofico insieme, è una colata lavica di personaggi e situazioni, di punti di vista perfettamente argomentati e racconti indiretti celati con superba malizia.
Le voci in differita che animano l’intero romanzo coprono un arco temporale assai vasto, fino ad arrivare ai giorni nostri, con la naturalezza con la quale diciamo “non è successo niente”, ma con la consapevolezza profondissima che invece tutto è mutato. E continuerà a mutare, ad libitum. Questo il senso della vita. Della parola.
Tutto è forma liquida, tutto è contenuto misterioso, nelle pagine di Pamuk, che crescono e si alimentano lungo i vicoli affollati di una città delle meraviglie, quella Istanbul violenta, degradata, splendidamente ottomana, povera nelle baraccopoli, ammaliante degli scorci di piazzole ellittiche e raggi di luna solitari; Istanbul magica, fatta di cantori appassionati e nostalgie inesplicabili, di furgoncini pericolanti che sfrecciano senza posa, di desideri imprenditoriali da provare a realizzare e soprattutto – ancora e sempre! – di tradizioni familiari da perpetrare, e con cui saper convivere, rispettosamente.
La vita gli appariva bella e serena solo quando immaginava di vivere altre vite, lontane dalla sua.
Pensa una sera Mevlut, il protagonista, che sposa una sorella per un’altra, come nel miglior solco sveviano, sembrerebbe. E invece no. Mevlut è un Cosini entusiasta e sostanzialmente felice, che se si abbandona alle melanconie lo fa solo per ubbia, per indole favolistica, per postura diremmo quasi mistica. Mevlut è un venditore di boza, bevanda tanto tipica quanto ormai in disuso, lievemente alcolica, ma non tanto da offendere le usanze religiose. E proprio come la sua boza sembra comportarsi Mevlut, raggirato e offeso, che riesce a vivere i giorni più felici della sua vita solo grazie a quel fatale errore. O meglio, a quel piccolo, apparentemente innocente segreto. Nessuno degli altri protagonisti, perché di un romanzo corale si tratta, infondo, potrebbe dire lo stesso.
E Mevlut, in questo, ancora, è un po’ l’incarnazione veritiera della stessa Istanbul. In perenne mutamento. Attraversata da ripetute ondate di malcontento, speranze, poi malcontento, poi altre speranze portate da avventori, turisti, immigrati, altri turisti, costruttori, grandi proprietari, piccoli arraffoni, malavitosi, borghesi, insomma, dalla più varia e variabile umanità.
Un’umanità soggetta al tempo, alle stagioni, un’umanità alla ricerca del nuovo, del benessere, un’umanità che brama l’indipendenza e ossequia le tradizioni, un’umanità che, fondamentalmente, ha estremo bisogno di essere soppesata (come da splendida immagine di copertina, di seguito), di essere quindi raccontata, e soprattutto di raccontarsi.
Esattamente come fa Orhan Pamuk, lucente voce lunare della Turchia e della letteratura tutta.