Ma sarà morto davvero John Barth? Così dicono i suoi colleghi dell’Università John Hopkins a Baltimora. Dicono che aveva 93 anni e che, da un po’, si era trasferito al sole della Florida (a Bonita Springs). Ma non sarà una delle sue trovate? Una di quelle beffe post-meta-letterarie che lo hanno elevato, già all’alba degli anni sessanta, nell’Olimpo dei padri della narrativa postmoderna al fianco di un buontempone come Kurt Vonnegut, ma anche di Joseph Heller e Italo Calvino? Non dimentichiamo che dopo essersi diplomato, nel 1951, alla John Hopkins, l’alma mater che lo accompagnerà per tutta la vita (con delle scappatelle alla Penn State e alla Boston University), e aver conseguito un master in inglese l’anno successivo, Barth aveva progettato una trilogia di “romanzi realisti” in cui avrebbe affrontato il tema della morte: L’opera galleggiante (minimum fax, 2022) e La fine della strada (minimum fax, 2020).

Ma il realismo non era nelle sue corde, gli stava legando le mani, ebbe a dichiarare al Washington Post, per cui, abbandonati i piani per un terzo romanzo, si era lanciato in modo giocoso in quella che si può definire la frangia sperimentale della letteratura, quella che diverrà la sua “casa” e il suo marchio di fabbrica. Già, appunto, e se avesse ripreso quel suo terzo progetto, accantonato per quasi settant’anni, e avesse voluto farci un pesce d’aprile? D’altronde Barth è (o dovremmo dire era?) uno che si era inventato il personaggio di “Giles, ragazzo capra” (Giles, Goat-Boy, romanzo fiume descritto come “un incrocio fra Tarzan delle scimmie e la Sacra Bibbia”, pubblicato in Italia da Rizzoli, nella collana La Scala, nel 1972), nato da una vergine e dall’Intelligenza Artificiale di un voluminoso computer (il WESCAC). E questo nel 1966, quando chi parlava di IA si contava sulle dita di una mano.

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John Barth era un grande affabulatore. I suoi studenti del corso di scrittura creativa lo adoravano per la sua capacità di trasmettere immaginazione, maestria e tecnica letteraria con l’esempio: come si seziona una storia, come si discerne lo stile, la voce propria e quella degli altri. «Uno dei piaceri di stare in classe con lui era sentirlo passare ai raggi X una storia, trovarne la struttura nascosta», raccontava Jean McGarry, allieva diventata a sua volta scrittrice e collega nei seminari di scrittura dove Barth invitava autori come Salman Rushdie, John Updike, Raymond Carver, Italo Calvino. «John Barth non è stato solo un maestro della narrativa e del saggio letterario, ma anche un retore del calibro di Samuel Johnson. Era un piacere essere in sua compagnia, sia come studente che come collega. Appassionato di letteratura e con un gusto impareggiabile, era pieno di arguzia e saggezza. In un modo raro, incarnava la sua narrativa nella sua stessa persona galante e spiritosa».

Si distingueva anche nelle interviste. Celebre quella per la Paris Review (“The Art of Fiction No. 86”) che era stata fatta nel corso di una trasmissione televisiva, con i tempi contingentati, per cui, trasposta su carta stampata, era venuta fuori più corta di quelli che erano gli standard abituali della rivista. I redattori pensarono che Barth avrebbe fatto sicuramente delle aggiunte per cui gli inviarono delle domande supplementari a cui non solo Barth non rispose, ma aveva anche accorciato il testo. I redattori pensarono che non avesse notato le domande aggiuntive. Gli rispedirono l’intervista accompagnandola con un assegno, tanto per il disturbo. L’intervista fu nuovamente restituita, insieme all’assegno non incassato, con la nota: “Non mi dispiace sapere che la nostra intervista sarà forse la più breve di quelle che avete mai fatto. In effetti, è un po’ più breve ora di quanto non fosse prima. Meglio non ripeterla!”.

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Ecco, professor Barth, se permette ci proviamo noi di doppiozero a ripeterla.

Va bene, ma per favore mi chiami John, anzi Jack: è così che ci chiamavamo, mia sorella gemella Jill ed io.

Lei fa spesso riferimento nelle sue opere a coppie di gemelli.

I gemelli condividono la curiosa esperienza di acquisire la capacità linguistica e altre abilità di base à deux, usando nel frattempo un linguaggio che precede e insieme supera il discorso articolato. Il discorso, nella prospettiva di due bambini gemelli, è per gli Altri. Noi gemelli consideriamo il linguaggio come i parlanti di un dialetto specifico considerano la lingua ufficiale: serve a rapportarci con gli estranei, fra noi non ne abbiamo bisogno. Per questo è ragionevole aspettarsi che un gemello che diventi narratore di professione non dia mai il linguaggio per scontato: lo tiene sempre presente, ci giocherella, lo mette in primo piano, ne è consapevole in un modo quasi innaturale.

Dunque, Jack, tralasceremmo domande sul suo passato di musicista…

Musicista mancato, vuol dire, e pessimo batterista jazz. Ma, guardi, aver studiato, seppur brevemente, orchestrazione alla scuola di musica Juilliard di New York mi è servito per diventare “orchestratore letterario”. Proprio a quelli della Paris Review avevo spiegato che un arrangiatore è uno che prende la melodia di qualcun altro e la trasforma per il suo scopo. Nel bene e nel male, la mia carriera di romanziere è stata quella di arrangiatore. La mia immaginazione si trova a suo agio con vecchie convenzioni letterarie come il romanzo epistolare o il mito classico che poi riorchestro per il mio scopo. In effetti nei miei libri c’è una certa influenza musicale. Mi interessa il suono di ciò che scrivo e spesso lavoro a pezzi letterari destinati solo a essere letti e non stampati. Al di là dei difetti che può avere la mia scrittura, di solito funziona abbastanza bene letta a voce alta.

Vogliamo parlare di postmodernismo? Nel suo articolo apparso sul numero di gennaio 1980 di The Atlantic, lei affermava che, all’epoca, la parola non si trovava ancora nei dizionari e nelle enciclopedie, ma che dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, “postmodernismo” è stato usato parecchio, specialmente in riferimento alla narrativa contemporanea.

Parliamo di archeologia letteraria, ma è un tema sempre attuale. Sì, è vero, in quegli anni, un po’ dappertutto, sono spuntati, come funghi, corsi universitari sul romanzo postmoderno americano. Ricordo di essere stato invitato all’Università di Tübingen insieme a William Gass e John Hawkes per essere messi in mostra come “esemplari viventi del postmodernismo”. Le confesso che quando mi sono preparato per l’incontro di Tübingen, visto che, sin da quando è uscito il mio primo pezzo di narrativa – un tentativo studentesco apparso nel 1950 nella rivista dell’università – venivo continuamente etichettato come scrittore postmoderno, ho cercato di imparare cosa fosse.

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E lo ha scoperto?

Per quanto ne so, i narratori americani generalmente inclusi nel canone sono, oltre ai tre di Tübingen, Donald Barthelme, Thomas Pynchon e Kurt Vonnegut. Diversi critici allargano le maglie della rete fino a includere Saul Bellow e Norman Mailer. Se poi si guarda fuori dal nostro orticello, ecco Samuel Beckett, Jorge Luis Borges, Vladimir Nabokov. E se poi vogliamo esagerare includiamo anche Raymond Queneau, Michel Butor, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, l’inglese John Fowles e l’espatriato argentino Julio Cortázar. Alcuni affermano che registi come Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Jean-Luc Godard e Alain Resnais sono da considerarsi postmoderni. Io personalmente non mi assocerei a nessun club letterario che non conti tra i suoi membri l’espatriato colombiano Gabriel García Màrquez e il semiespatriato italiano Italo Calvino.

Mi pare, comunque, di capire che non tutti i critici sono d’accordo sull’etichetta postmodernista.

Guardi, l’attività principale dei critici postmoderni, detti anche metacritici o paracritici, che scrivono su riviste postmoderne, o parlano ai simposi sul postmodernismo, consiste nel litigare su cosa sia o debba essere il postmodernismo e, di conseguenza, su chi debba essere ammesso al club – o costretto a iscriversi – secondo la definizione che ciascuno ha del fenomeno, e la sua opinione su particolari scrittori. D’altra parte, presso certi commentatori i criteri di distinzione si fanno molto sottili. Il professor Jerome Klinkowitz dell’Università del North Iowa, per esempio, saluta Barthelme e Vonnegut come modelli esemplari di “postcontemporaneità” nell’America degli anni settanta, e relega Pynchon e il sottoscritto agli anni sessanta. Italo Calvino, d’altra parte, ha cominciato come neorealista, con Il sentiero dei nidi di ragno, ed è maturato fino a diventare un postmodernista esemplare con Cosmicomiche e Il castello dei destini incrociati, innalzandosi, cadendo o semplicemente spostando occasionalmente i suoi interessi sul modernismo, con Le città invisibili.

Bene, allora cos’è il postmodernismo? E vorrei chiederglielo girandole la domanda retorica che lei si è fatto nel saggio su La letteratura della pienezza: “abbandonata la litania dei nomi e fatte salve le differenze tra le diverse opere, è poi vero che gli scrittori più spesso identificati come postmoderni condividono principi estetici e pratiche di scrittura comune significative almeno quanto le differenze che li distinguono?”

Il termine stesso, postmodernismo, è goffo, ricorda gli epigoni, suggerisce nuove direzioni nella vecchia arte del narrare, meno vigorose e meno interessanti, piuttosto che veramente innovative, una debole imitazione di qualcosa difficile da imitare. Mi viene in mente il fascino che sul primo Joyce esercitava la parola gnomon nel suo senso geometrico negativo. Come scrittore cresciuto sulle opere di Eliot, Joyce e Kafka e degli altri grandi modernisti, come scrittore etichettato tra i postmodernisti, e come scrittore che, in fondo, ha alcune idee, senza dubbio ingenue, su quello che il termine postmodernismo dovrebbe significare per descrivere qualcosa di valido in modo adeguato, sono molto grato a quanti non ritengono che le proprie categorie critiche si definiscano da sole.

Ritiene che queste categorie critiche siano persuasive?

Beh, almeno finché non comincio a esaminarle più da vicino. Ovviamente le categorie critiche sono tutte più o meno scivolose e tutto dipende dalla loro utilità. Credo che, come un bravo insegnante probabilmente insegna bene, indipendentemente dalla teoria pedagogica che lo affligge, così uno scrittore dotato ha buone probabilità di superare quelli che ritiene essere i propri principi di estetica, per non parlare di quelli che gli altri gli attribuiscono. Credo proprio che una splendida opera, in qualsiasi stile, si trascini dietro l’ideologia critica come un transatlantico si trascina dietro i gabbiani. Gli artisti, i testi superano sempre i limiti del modernismo e del realismo, del surrealismo, dell’impegno politico, della purezza estetica, dello sperimentalismo, del regionalismo o dell’internazionalismo o di qualsiasi altra definizione, e l’opera specifica dovrebbe essere più importante del contesto o delle categorie critiche.

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Lei ha detto una volta di non essere un esperto di letteratura o di filosofia, ma un semplice narratore di storie. Ovvero, per citarla, un bugiardo professionista. Cos’è per lei la narrativa?

Bella domanda! Anch’io mi sono chiesto spesso come si spiega il fatto che gente di ogni epoca e di ogni luogo pare trovare piacere, sia a livello individuale che di cultura collettiva, nell’inventarsi delle storie e poi nel raccontarle o scriverle o metterle in scena, come anche nel sentirle o leggerle o vederle rappresentate. Domande del genere sono talmente elementari che ci sembrerebbe di poter rispondere a ciascuna: “Va da sé”. Quello che le posso dire è che dopo tutti questi anni e migliaia di pagine a stampa, dopo una carriera di scrittura a tempo pieno e di insegnamento a tempo altrettanto pieno, io rimango felicemente perplesso di fronte a un certo numero di questioni elementari che riguardano la natura delle storie e la loro narrazione – perplessità che aumenta man mano che affronto tali questioni in modo più diretto. Va da sé, appunto, che per uno scrittore nel pieno della sua attività non è indispensabile mettere costantemente in discussione i principi fondamentali della sua arte. Il porsi domande senza darsi respiro può portare alla paralisi da eccessiva autocoscienza, come quando si pensa troppo alla natura del nodo necessario a ottenere un fiocco mentre si tenta di allacciarsi le scarpe. Molte delle proprie capacità sono messe a maggior profitto quando se ne ha una padronanza tale da poterle utilizzare di routine senza doverle governare consciamente – quando, come si suol dire, usarle “viene naturale”. Un buon giocatore di tennis durante una partita non ha tempo per pensare in modo conscio a come mantenere l’equilibrio mentre tiene l’occhio fisso sulla pallina; e il campo centrale di Wimbledon probabilmente non è il posto migliore per porsi domande del tipo “Che senso ha veramente il gioco del tennis?”, oppure “Che cosa significa per due bipedi altamente evoluti prendere a racchettate una pallina gialla spedendola avanti e indietro sopra una rete finché l’uno o l’altro non ce la fa più?”.

Cos’è, dunque, questa cosa che chiamiamo narrativa?

Le rispondo con la definizione fornita da Cleanth Brooks e Robert Penn Warren negli anni Quaranta che suona inoppugnabilmente di buon senso: «Il narratore [va da sé] fa uso della prosa per raccontare una storia che si presume sia stata inventata». E se vuole un’affascinante definizione di cos’è un romanzo, le rispondo con le parole del poeta Randall Jarrell: “una prosa narrativa di una certa lunghezza che ha in sé qualcosa che non va”.

Lei cita spesso, nei suoi saggi e interviste, Italo Calvino.

Adoro il Calvino delle Cosmicomiche, favole per l’era spaziale stupendamente scritte e interessantissime: “sogni perfetti” le ha definite John Updike. Come tutti i buoni scrittori del fantastico, Calvino àncora i suoi voli sul dettaglio specifico, toccabile: a nutrire e rendere solide le nebulose, i buchi neri e il lirismo, c’è in lui una generosa quantità di pasta, di bambini, di belle donne fotografate in un attimo e perdute per sempre. Da vero scrittore postmoderno, Calvino tiene sempre un piede nella narrativa del passato, tipicamente quella italiana di Boccaccio, di Marco Polo o della fiaba, e un piede, si direbbe, nello strutturalismo parigino: un piede nella fantasia e uno nella realtà oggettiva.

Un’ultima domanda, professor Barth, anzi, Jack. A proposito del suo romanzo cosmico tentacolare Giles Goat-Boy, il critico Robert Scholes ha scritto: “Barth fa poche concessioni agli ottusi o ai non istruiti, al ‘lettore semplice’. Anzi, esige un lettore di lusso. A coloro che hanno il giusto equipaggiamento intellettuale ed emotivo, egli è pronto a offrire più di qualsiasi altro romanziere che scrive oggi, in termini di ristoro letterario sia semplice che di fantasia. Il suo pubblico deve essere quello stesso pubblico le cui capacità sono state ampliate e preparate da Joyce, Proust, Mann e Faulkner: Barth è un genio comico di prim’ordine”. Lei si riconosce in questo giudizio?

A tutti noi piace immaginare che le nostre vite abbiano un senso, e la narrazione è un modo per ordinare gli eventi. Come Sheherazade ogni scrittore deve continuare a raccontare storie o è “kaputt.” Ognuno a suo modo. E questo vale per tutti gli scrittori del mondo: sei bravo quanto la tua prossima storia.

Nota

Brani di questa “intervista impossibile” sono tratti da: John Barth, “La letteratura della pienezza: Fiction postmodernista”, apparso su The Atlantic, n. 1, vol. 242, gennaio 1980, pp.65-71, pubblicato in Italia in Postmoderno e letteratura, a cura di Peter Carravetta e Paolo Spedicato, traduzione di Paola Ludovici, Studi Bompiani, 1984, pp 86-98; e da John Barth, L’algebra e il fuoco. Saggi sulla scrittura, a cura di Martina Testa, traduzione di Damiano Abeni, minimum fax, 2013.

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