Judith Malina si è spenta. Chi l’ha vista accendersi in scena e fuori scena sa che – come in altri rari casi di rari attori – il verbo spengere è più adatto e corretto del morire. Judith era una delle due luci del gruppo teatrale più importante che ci sia stato al mondo nel secondo Novecento. Non è una questione di storia ma di arte, e non c’è comparazione che tenga: quello che ha fatto e soprattutto quello che è stato il Living Theatre non è comparabile con nessun altro fenomeno o noumeno della più lunga e luminosa stagione di teatro che dagli anni cinquanta almeno fino agli ottanta ha regalato le rivelazioni e le rivoluzioni migliori. Forse è stato il più lungo canto del cigno di un’arte scenica morente, che magari ancora si dibatte e perfino si rinnova, ma è come se fosse davvero e da tempo “spenta”. La luce del Living l’ho vista passare come una cometa annunciata e insieme sorprendente. La mia generazione di spettatori e di attori è forse stata l’unica ad avere avuto un’attesa ansiosa e una sorpresa appagante. Circolava fra i giovani teatranti in erba e studenti in fasce di quegli infiniti anni sessanta una parola magica che rappresentava la soluzione alchemica di chi faceva e di chi vedeva teatro: brechtartaud suonava come l’abracadabra in grado di realizzare la fusione di due modi e fini e stili che avrebbero ridato forza e soprattutto senso al teatro. E attraverso il teatro alla “cultura”, che allora era appena nata come pratica alternativa e insieme complementare della “politica”, a sua volta riscoperta e ridefinita come reale cambiamento e possibile miglioramento del mondo.
Troppe cose e troppe parole sono da allora cambiate di segno e di funzione perché oggi si possano non solo capire ma addirittura usare. Ma forse era tutta lì, in quelle parole e cose, l’attesa generazionale che ha dato vita a un sessantotto di cui tutti parlano come fosse l’anno prima del 1969 mentre era appena l’anno dopo il 1967.
Ho visto il Living di Julian Beck e di Judith Malina nel 1967, alla sua seconda discesa in Italia e, appunto per questo precedente, alla sua prima “attesa”. La “sorpresa” fu poi mirabolante e per così dire e sentire definitiva: la fusione nucleare fra Brecht e Artaud era finalmente arrivata ed è scoppiata nel mese di marzo come una bomba, accecando e spiazzando tutti i giovani gruppi del Festival Internazionale di Teatro Universitario di Parma. Tutto quello che si era vanamente cercato era avvenuto, tutto il teatro sognato era stato fatto, una volta per tutte. C’era di che continuare, si dissero alcuni, ma c’era anche di che smettere. Un mio amico che ha visto il Living di quell’annata non è poi più andato a teatro perché – diceva lui – il teatro ormai l’aveva visto. E non voleva rischiare di dimenticarlo o peggio di confonderlo.
Lo spettacolo del Living di quell’anno era l’Antigone e Judith Malina era la protagonista, se di protagonisti si può parlare davanti e dentro la creazione radicalmente collettiva del Living, il gruppo più comunitario che sia mai esistito. Il Living era una tribù compatta e insieme un centro irradiante: potevi guardarlo sbigottito da fuori oppure inseguirlo fino a perderti dentro o fino a ritrovarti aperto. L’Antigone del Living veniva da lontano ed era il risultato di un loro viaggio in Grecia e di un percorso di testi che andavano da Sofocle a Hölderlin a Brecht, per poi diventare – come Judith ha detto e scritto – “la produzione artaudiana dell’Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht”. Così, Beck e Malina sono stati i primi e secondo me anche gli ultimi a realizzare quello che Artaud aveva solo pensato e scritto. Beck e Malina avevano letto e sposato Il teatro e il suo doppio quando il testo ma perfino il nome di Artaud era un mito di tutti e un mistero per tutti: la traduttrice americana aveva passato a loro il suo dattiloscritto nel 1958, sei anni prima che fosse edito in Francia. La fame della cultura, la peste del teatro, la trance dell’attore da allora diventarono la bandiera e la sostanza di una vita teatrale e di un teatro vitale che, senza interruzioni né esitazioni, ha marciato per decenni lungo la linea di condotta di una rivoluzione teatrale e globale permanente, che dettava la regola anzi la disobbedienza sia alla scena che alla platea, sia all’arte che alla vita.
L’Antigone, di tutti gli spettacoli del Living, è stato quello più italiano di tutti, perché infine è stato rifinito e definito in Italia; persino con un soggiorno di quindici giorni di prove a Perugia dove gli studenti del teatro universitario di allora potevano guardare e cercare di rubare (di capire e talvolta malamente copiare) il segreto del loro metodo. Ma non il mistero del loro miracolo.
Ho provato più volte a descrivere quello spettacolo di cui anch’io ho spiato il processo, e qualche volta mi è sembrato perfino di esserci riuscito; ma adesso mi accorgo di aver sempre raccontato il suo effetto sul pubblico senza nemmeno provare a spiegarne la causa. La causa prima era Judith Malina, che aveva cominciato da sola (o con la sua compagna Jenny Hecth cioè Ismene) a “dare corpo” alle improvvisazioni attorno alle quali l’intera tribù del Living si era poi aggregata; sì le “improvvisazioni”, i primi passi di un nuovo metodo che poi è diventato liquido e ambiguo e che invece allora nasceva rigoroso e fertile sotto la sua “regia”.
Tutti dicono e diranno che Julian Beck era il vero regista del Living, in omaggio al suo genio e alla sua santità ma anche per il vizio di coniugare sempre tutto al maschile. In effetti, il Living Theatre non aveva due leader e forse nemmeno due luci ma una sola, frutto di un arco voltaico in cui – senza forse – Judith era la testa e Julian il cuore, a dispetto dell’ordinaria assegnazione di genere: del resto in teatro il sesso forte è il femminile, e però quello necessario è il virile. Così Julian Beck magari si è presa più poesia e più gloria, mentre Judith è stata l’interprete virile dell’ideologia e l’artefice della storia. Ma poi, si può davvero dividere quello che il Living ha unito per sempre? Così Judith ha avuto accanto Julian anche dopo che lui se n’è andato, ormai tanti anni fa. E fino ad adesso – fino a che Judith è rimasta accesa – non si poteva dire che Julian si fosse “spento”.
Adesso invece sì. Adesso nessuno si aspetti più comete ché non ci sarà più il “teatro vivente”. Chi si accontenta di quello seduto e abbonato o chi si inerpica sulla rete di nuovi linguaggi e messaggi o chi si affanna a resuscitare meraviglie a colpi di tecnologia, tutti davvero tutti si allontanano sempre di più dalla scia di quell’esplosione nucleare di corpi che ha combinato Arte e Vita per la prima e ultima volta. Dalla scia ormai spenta di Judith e Julian che hanno seminato in scena e combinato in platea il senno di Brecht con la follia di Artaud, la terapia della socialismo e l’anarchia della peste, l’ottimismo lucido della ragione e il pessimismo festoso della volontà.