Fairfax, Oklahoma, attorno al 1920. Foto di indiani con macchine di lusso, gioielli, vestiti eleganti, e un tenore di vita tra i più alti di tutta l’America di allora. I bianchi che gli stanno attorno invece si arrabattano per dare una mano, farsi assumere per qualche lavoretto o collaborazione, o più semplicemente provare a raggirare qualcuno di questi noveaux riches per accaparrarsi le briciole di tanta ricchezza. È una delle prime scene di Killers of the Flower Moon, il film senz’altro più atteso di questa edizione del Festival di Cannes e presentato fuori concorso lo scorso sabato pomeriggio in un’emozionata Sala Debussy di fronte a una platea di un migliaio di accreditati stampa (uscirà a ottobre). E sembra in effetti la storia di un mondo capovolto dove i bianchi e i nativi americani si sono scambiati di posto: è invece una vicenda reale tra le più improbabili e sorprendenti della storia americana. La tribù degli Osage, originaria delle valli dei fiumi Ohio e Mississippi, a seguito di varie guerre e deportazioni finì per essere relegata a quello che nel XIX secolo si chiamava “Territorio indiano”, una zona corrispondente più o meno all’attuale Oklahoma costituita ad arte per isolare e radunare diverse tra le tribù indiane man mano che avanzava la colonizzazione bianca. È in questa terra che per una pura ironia della storia vennero scoperti a inizio XX secolo alcuni tra i più ricchi pozzi petroliferi dell’America del Nord che in un brevissimo arco di tempo resero alcuni dei loro abitanti, come gli Osage, tra i più ricchi rentiers della nazione. Senza dover far nulla.
Come fare dunque per accaparrarsi la materia prima per eccellenza più preziosa per il nascente e dinamico capitalismo americano? Come riuscire a requisire quella terra che era appena stata data agli Osage credendola senza alcun valore? Si tratta di una delle tante storie di “accumulazione originaria” che hanno contraddistinto gli albori della storia del capitalismo e con cui Marx chiude il primo volume del Capitale. E che continuano ancora oggi come mostrano tutte quelle vicende legate alla proprietà delle terre indigene e allo sfruttamento delle materie prime che vi sono contenute da Standing Rock alle lotte contro al fracking. Ma il segreto – quando il cinema vuole mostrare un evento storico generale attraverso una storia particolare – è sempre quello di legare processi collettivi e impersonali con storie soggettive e scelte individuali, in modo da far intravedere la prima nei secondi. E allora qual è la storia particolare che tuttavia è anche generale di cui racconta Killers of the Flower Moon?
È quella di William Hale (Robert De Niro) un proprietario terriero dell’Oklahoma allevatore di bovini che si trova per caso ad avere le proprie terre contigue a quelle degli Osage e che vede in tutta questa vicenda una grande opportunità. Ma soprattutto del nipote Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), un reduce della Prima Guerra mondiale menomato fisicamente (“something happened in my guts”) che si trasferisce in Oklahoma perché – a suo dire – gli piacciono i soldi. Ma gli piacciono anche le donne, l’alcol, il gioco d’azzardo, la violenza ecc. Dunque com’è che William Hale e Ernest Burkhart finiranno per essere protagonisti di quella requisizione della terra agli Osage che renderà possibile la nascita delle grandi compagnie petrolifere private?
Se quando Scorsese doveva parlare degli investimenti della criminalità organizzata a Las Vegas, o dei missionari cattolici nel Giappone del Seicento, o della storia della criminalità organizzata di origine italiana a New York attraverso una storia soggettiva, lo faceva creando un cortocircuito tra generale e particolare, usando i conflitti soggettivi interiori come immagine di una questione universale, qui avviene qualcosa di un po’ diverso dal solito, che forse ha preso un po’ in contropiede molti di quelli che si aspettavano un’altra grande epopea scorsesiana. Se la struttura “religiosa” di base dei film di Scorsese (anche quando non parlano di religione) è quella di usare l’esperienza di abbassamento più degradante del peccato, come occasione di ribaltamento nella grazia (di fatto, tutti i protagonisti dei suoi film sono variazioni sul tema del Johnny Boy di Mean Streets, come per altro da lui stesso ammesso) le tensioni drammatiche che dilaniano l’esperienza soggettiva sono invece quasi completamente assenti in Killers of the Flower Moon. Ernest Burkhart è una figura troppo stupida e troppo “piatta” per incarnare nella propria soggettività il conflitto drammatico e a volte tragico tra storia e individuo. Perché il peccato diventi grazia (L’ultima tentazione di Cristo), perché la pulsione di morte diventi elevazione all’eternità (Toro scatenato), perché la dannazione diventi redenzione (The Irishman), perché il tradimento diventi fedeltà (Silence ma anche L’età dell’innocenza) c’è bisogno di un ingrediente fondamentale, che è la verità. I conflitti latenti devono palesarsi, ciò che è rimosso deve tornare alla superficie, il destino insomma deve colpire l’individuo che pensava di sfuggirgli. Invece in Killers of the Flower Moon la verità rimane fino alla fine nascosta lasciando inespressa quella resa dei conti drammatica che non solo ha contraddistinto i suoi film, ma che è da sempre un ingrediente necessario per trasfigurare il soggetto in eroe e la vicenda storica o pseudo-storica in mito.
Killer of the Flower Moon è sorprendentemente uno dei film dove Scorsese finisce per sconfinare più volte nei toni della commedia e dove il climax drammatico rimane sempre un passo indietro rispetto alla sua piena espressione. Chi si aspettava il Great American Movie che trasfigurava la storia particolare in mito universale – alla Cancelli del cielo o Petroliere – rimarrà inevitabilmente deluso da un film che nonostante le tre ore e mezza e i 200 milioni di dollari di budget è tutt’altro che una grande epopea magniloquente. Qui invece della trasfigurazione in mito c’è semmai una burletta, o meglio un radiodramma un po’ stupido che prende il posto del mito e che finisce per banalizzare quello che fu invece un evento storico epocale e drammatico, ma che non venne mai riconosciuto come tale e che non ha alcun posto nel mito americano, anche nella sua faccia denegata e bastarda.
Il genocidio dei nativi in questo film non ha la forma del grande sterminio di massa, che pure in altre occasioni ebbe, ma di una serie di esecuzioni mirate, cooptazioni, matrimoni semi-combinati, raggiri piccoli e grandi in un misto di inganno, arrendevolezza e violenza che ebbe come prima conseguenza quella di togliere ai nativi americani anche lo status di vittime. E forse c’è qualcosa di assolutamente geniale in una forma filmica così trattenuta e insolita per Scorsese, e così atipica per il suo cinema: un gangster movie senza nemmeno la cattiveria dei gangster; una storia di mafia che però non ha il bagno di sangue di Goodfellas; un western senza cowboy; e una commedia che non fa ridere. A un certo punto compare persino J. Edgar Hoover che però qui sta incredibilmente (quasi) dalla parte dei buoni. Ma forse la cifra del film è da ricercare proprio in questa struttura drammatica dissimulata, in una sorta di doppia cancellatura della storia che ha finito per nascondere anche le tracce di questa rimozione. E se un regista come Scorsese è capace a ottant’anni suonati di tornare ancora una volta indietro sui suoi passi e fare un Liberty Valance senza alcuna concessione alla maniera, vuol dire che tutto sommato al cinema – anche oggi, anche per il più smaliziato e disincantato degli spettatori – è ancora possibile sorprendersi. E non può che essere una buona notizia.