Abbiamo visto “ La corte “( L’Hermine ) regia di Christian Vincent.
Regia: Christian Vincent / Sceneggiatura: Christian Vincent / Fotografia: Laurent Dailland / Montaggio: Yves Deschamps / Interpreti: Fabrice Luchini, Sidse Babett Knudsen / Produzione: Albertine Productions, Cinéfrance 1888, France 2 Cinéma / Distribuzione: Academy Two / Paese: Francia, 2015 / Durata: 98 minuti.
Quando giunge nelle sale italiane un buon film francese si parla per pigrizia subito di capolavoro, se una buona ( ma non eccelsa ) sceneggiatura, fatta di dialoghi serrati, domande e risposte logiche e descrizione dei protagonisti coerenti, si fa allora degli irriguardosi confronti col cinemino medio italiano tutto plastica e narrativa televisiva; se poi il film è interpretato da un ottimo attore francese di origini italiane come Fabrice Luchini ( L’amante del tuo amante è la mia amante, Confidenze troppo intime, Le donne del 6° piano ) allora non c’è da aggiungere altro, ci si inchina e si omaggia, si scrive di sorpresa. Chissà André Bazin e i fondatori della Nouvelle Vague come avrebbero giudicato un film del genere e se l’avrebbero ascritto ironicamente a quel “ cinema di papà ” degli Anni Cinquanta. Se a tutto questo aggiungiamo che il regista Christian Vincent ( La Timida, La cuoca del presidente ) è un réalisateur di commedie un po’ leziose senza infamia, la descrizione che vi vogliamo fare si può concludere.
La narrazione, per certi versi, sembra dal timbro televisivo, in cui si mischia il genere commedia sofisticata ed elegante con il dramma di un omicidio di un bambino. E attraverso un processo crudele e la corte galante di un giudice attempato e un po’ fuori moda nei confronti di una bella giudice a latere, si tenta ( secondo noi in modo un po’ stereotipato e troppo debole ) di descrivere una società fatta di esserini insignificanti e senza personalità, un po’ approssimativi, e collocati in una realtà sociale strutturata in modo verticale tipica della Francia di tutte le epoche. Una storia per un attore eccellente e non per un film corale e sociale.
Siamo nella provincia francese, il giudice della Corte d’assise di Saint-Omer, Xavier Racine – che si sta separando dalla moglie e risiede in albergo – deve iniziare un nuovo processo, nel quale un giovane padre disoccupato è accusato di aver ucciso a calci la sua figlioletta di pochi mesi. L’uomo è un giudice esperto, equilibrato, forse un po’ cinico ma tutti coloro che lo conoscono lo deridono forse proprio per le sue doti professionali fuori moda, qualcuno lo ha soprannominato il magistrato “ a due cifre ”, perché è difficile che i verdetti siano meno di dieci anni di reclusione. Intorno a lui, avvocati sempre al cellulare, giurati rimorchioni, donne tra l’insignificante e il frustrato. L’inizio è anche una cronaca in diretta di come si allestisce un processo con i suoi riti e le sue formule, in cui il regista indugia forse un po’ troppo. Ma a interessare Racine, oltre l’omicidio della povera neonata, e forse la commiserazione verso due genitori proletari e sfortunati, è la presenza tra i giurati popolari di Ditte Lorensen-Coteret, ( una convincente Sidse Babett Knudsen, vista già in Dopo il matrimonio ), un’anestesista danese che ha conosciuto anni prima, quando era ricoverato per un incidente, e della quale si era perdutamente innamorato forse non corrisposto. E da questo momento si sviluppa la storia sul doppio binario, processo con tutte le sue dinamiche e tentativo di corteggiamento del giudice verso la giurata. Intorno il mondo stratificato francese, avvocati, giudici, poliziotti, e giurati che prima di iniziare devono presentarsi dicendo la provenienza regionale e urbana da cui vengono, la loro professione, il loro grado di istruzione: tutti descritti attraverso i loro vestiti, una sciarpa rossa, degli anfibi, un maglione sformato, un paio di leggins. E tutto si evolve al meglio sia per il processo che per il Presidente della corte.
Il regista Vincent realizza una commedia sentimentale minimale, anche sottile e delicata. Eleganti sono i luoghi della provincia francese, educati i personaggi, ottima l’interpretazione di Luchini ( più che interprete, se stesso in un ruolo ) come quella della Kundsen, anche se il ruolo è a tutto tondo e senza alcun sbalzo emotivo e autonomo.