Qualche anno fa, ne aveva da poco compiuti 95, intervistammo Franco Ferrarotti. Fu un dialogo estroso, a suo modo straordinario, che partiva da un piccolo, ‘pericoloso’ libello di Simone Weil. L’intervista fu pubblicata sull’allora “Intellettuale Dissidente”. La replichiamo oggi, in memoria di un pensatore anticonformista.

Per intenderci sul ‘tipo’. Gli telefono, scopro che ha compiuto da poco 95 anni, “insomma, professore, auguri”. Lui, di rimando, immediatamente, “lasci perdere onori, onorificenze, onoranze…”. La voce è piena, spavalda, a tratti indignata. Professore emerito di Sociologia alla ‘Sapienza’, Franco Ferrarotti ha fondato riviste – “Quaderni di Sociologia” e “La Critica Sociologica” – è stato tra i collaboratori più stretti di Adriano Olivetti, ha polemizzato in gioventù con Benedetto Croce. In un libro autobiografico edito nel 2004, Pane e lavoro!, si è dato dell’“outsider”; due anni dopo, a favore di chi è duro d’orecchi, in Nelle fumose stanze, ha dato lievito alla metafora dicendosi “un cane sciolto”. A ribadire, insomma, una attitudine solitaria, un senso della pietà che si volge al suo gemello, la nobile rabbia. Recentemente il professor Ferrarotti ha curato, per Marietti 1820, un’edizione del pamphlet incendiario di Simone Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici. “In realtà, non è nulla di nuovo. Ero a Parigi, era il 1950, e ho letto quella Note di Simone Weil sulla rivista ‘La table ronde’. La tradussi subito, uscì l’anno dopo su un numero di ‘Comunità’; oggi, semplicemente, mi pare attualissima”, mi dice Ferrarotti. La Weil, in effetti, va con l’accetta: “La soppressione dei partiti rappresenterebbe un bene quasi assoluto”, scrive. E poi:

“Quasi ovunque – e spesso anche a proposito di problemi puramente tecnici – l’operazione di prendere partito, del prendere posizione a favore o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero. Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici e si è allargata a tutto il Paese fino a intaccare la quasi totalità del pensiero”.

Nella nota introduttiva, Ferrarotti sguaina la Weil e ci consegna alcune bordate corroboranti: “Quando il dibattito sulle idee e sui programmi inaridisce e la lotta si personalizza, siamo alla vigilia del satrapismo e la democrazia si appanna, muore per autoconsunzione”. Alla prestanza dello studioso corrisponde, in Ferrarotti, un’ineffabile energia, l’istinto a gettarsi tra le cose irredimibili.
Dylan Thomas e Raffaele La Capria
La mia ferita è il mondo

Professore, che ne è oggi, dunque, dei partiti?

Esistono, piuttosto, i professionisti del partito. Uomini – e donne – che somigliano a truppe di occupazione, girano sulle auto blu, in un paese a loro straniero, che non conoscono.

Il PD pare dare movimento al pantano…

Ecco, appunto, il PD. Ottimo esempio di cosa è diventato un partito. Guerra tra bottegai – chiedendo scusa ai bottegai, s’intende.

…eppure, lei ha fatto politica, è stato deputato dal 1959 al 1963, per il Movimento Comunità…

Qui deve permettermi una piccola divagazione personale. Sono diventato deputato per caso. Lavoravo per Olivetti, a quell’epoca ero in India: stavo trattando con l’allora Primo ministro indiano, Nehru, per la costruzione di una fabbrica di telescriventi, a sud di Nuova Delhi. Olivetti mi telefona e mi dice, ‘L’ho messa in lista con me, le va bene?’. Accettai. Tutto lì. Ho preso sul serio il mio mandato, consapevole di un alto obbligo morale. Giuseppe Saragat e Amintore Fanfani mi hanno chiesto di continuare a esercitare il mio voto di ‘indipendente di sinistra’. Infine, ho capito che se volevo fare il professore avrei dovuto interamente dedicarmi allo studio… così ho fatto.

Mi spieghi.

Ho capito, intendo, che la carriera politica, almeno per me, era incompatibile con la ricerca accademica. Avevo come colleghi, in università, Fanfani e Aldo Moro che spesso, durante le sessioni di laurea, scattavano in piedi, andavano via, per votare a Montecitorio. In molti mi hanno consigliato di darmi alla politica, avrei potuto diventare ministro… Non nego che ho passato qualche settimana nel dubbio. Infine, ho optato per la ricerca, per l’università, o meglio, per dirla con uno slogan, per la cultura come progetto di vita.

Torno alla domanda capitale: che ne è dei partiti, oggi? Meritano di essere soppressi?

I partiti hanno senso, come dice la Costituzione, in quanto organizzatori di consenso. La Costituzione non dice nulla, però, riguardo al loro ordinamento interno. Oggi i partiti riflettono una mediocrazia che mi pare generale in Italia, un Paese in cui domina l’inappetenza culturale e il disorientamento.

Cosa dovrebbero fare i partiti, allora?

Ascoltare la società e tradurre il disagio in programmi razionali. Un compito, questo, che ormai neppure i sindacati mi pare sappiano assolvere. D’altronde, il problema è atavico: siamo figli di una cultura di origine aulica, ossessionata e direi paralizzata dal timore reverenziale. Potrei riassumerle i grandi filoni della cultura italiana in tre branche: a) la cultura intellettuale cattolica, ecclesiale, neoscolastica, che ha avuto figure anche di spicco come Francesco Olgiati e Gustavo Bontadini; b) una cultura storiografica di prim’ordine, pura, che rischia, per così dire, di fare la toeletta al morto: non si esprime nella ricerca; c) una cultura giuridica che sacrifica, da sempre, la confusionaria realtà dell’esperienza quotidiana in favore di un formalismo logico asettico, impeccabile, un po’ spurio.

…e qui arriva il tema della Pubblica Amministrazione, staccata dalla realtà verso una specie di verità burocratica…

Il vero problema è quello. La nostra Pubblica Amministrazione non è funzionalistica ma legalistica: non risolve i problemi ma attende che i problemi esplodano, per poi rimandare ad articoli, norme, lemmi… e infine non succede nulla. In crisi costante, in ritardo rispetto alla società e i suoi mutamenti, la Pubblica Amministrazione andrebbe riformulata radicalmente, ma i partiti politici sono incapaci.

Ricordo, tra l’altro, che nel 2016 lei era a favore della riforma costituzionale.

Il referendum, allora, era azzeccato, Matteo Renzi aveva ragione. Occorre riformare il Parlamento affinché il Senato non sia la fotocopia della Camera. Bisogna tenere presente che la nostra Costituzione è nata sotto l’ombra e il terrore del Fascismo, ragion per cui gli argini protettivi contro l’esecutivo sono enormi. A tal punto che oggi l’esecutivo non funziona.

Certo, la crisi rende difficile il cambiamento…

Non è vero. Le crisi hanno una funzione epifanica, ti squarciano in modo radicale. Oggi come oggi dovremmo – partiti, sindacati, giornalisti, professori, professionisti – approfittare della crisi per riformare in qualche modo il Paese. Tuttavia, il riformismo italiano ha una falla ancestrale: per un verso è rivoluzionario, vuole tutto e subito, finendo con l’essere velleitario; dall’altro è socialdemocratico, saragatiano, va a passi talmente piccoli da sembrare avulso dalla realtà. Il punto reale è l’uguaglianza sociale, la redistribuzione autentica della ricchezza: ma chi ne parla? Finché non arriva il Fondo monetario e crede con una patrimoniale di risolvere tutto…

Insomma, è ottimista…

Certo che lo sono! Amo la solitudine, ho bisogno del silenzio. Il grande regalo che ci ha fatto questa crisi è riscoprire il senso del limite. Abbiamo vissuto per troppi anni in un delirio di onnipotenza tecnica. Bisogna rivalutare tutto, a partire dalla memoria: dovremmo tornare a studiare a memoria, a scuola.

Per la democrazia i tempi sono difficili, l’usura la sta consumando.

La democrazia è una forma di governo sperimentale: è difficile e sempre in crisi, per natura. Ma la sua forza è quella di sapersi autocorreggere. Ecco, mi pare che questo desiderio di autocorrezione lo abbiamo smarrito. Eppure, ricordo che Giovanni Leone diceva, molti anni fa, che se non fosse stato per l’Onorevole Alfredo Covelli, un monarchico, e per me, un indipendente di sinistra, il Parlamento si sarebbe risolto in un “leggimento”, dove tutti leggono le proprie dichiarazioni, fino a sfinire l’aula.

Tornando all’oggi…

…occorre uno sforzo di verità e di realtà. Di modestia. Bisogna guardare alle cose come sono, senza ridurre la politica a una lotta di mozioni e contromozioni. Ma non vede? Venendo meno le idee, oggi del discorso politico non restano che gli insulti.

Insomma…

Gliela dico così: siamo come ai tempi della Cina prima di Mao.

Lunga marcia, lunga agonia.

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