Nona Fernández (Santiago de Chile, 1971) è una delle voci imprescindibili dell’attuale letteratura ispanoamericana. A partire dal folgorante romanzo d’esordio, Mapocho (del 2002, meritoriamente proposto in italiano dalla casa editrice gran vía nel 2017), tutta la sua opera tesse e ritesse i fili – nascosti, recisi o rimossi; pubblici e insieme privati – che dal Cile odierno si tendono retrospettivamente verso gli anni della dittatura. Fernández torna ora a coltivare la propria personale ossessione letteraria nella sua ultima opera, magistrale: La dimensione oscura, pubblicato sempre da gran vía nella traduzione di Carlo Alberto Montalto.
Il libro muove da un fatto storico, ricostruendo la vicenda di Andrés Valenzuela Morales, militare e torturatore di prigionieri politici nel primo decennio del regime di Augusto Pinochet che, nel 1984, decide di auto-denunciare i propri crimini in una testimonianza, dettagliata e raggelante, resa alla rivista di opposizione Cauce. Nona Fernández non si limita però a ripercorrere la vita di Valenzuela: intorno alla figura del torturatore-pentito orbitano infatti le storie di alcune tra le sue vittime, le riflessioni sulle zone oscure della memoria e sulla presunta banalità del male, e ricordi d’infanzia, suggestioni letterarie o cinematografiche, in un gioco di riverberi incrociati di rara potenza espressiva. L’autrice mette anche molto di sé in questo libro, alternando la storia dell’uomo che torturava alla cronaca dei mesi di ricerca dedicati alla preparazione del volume.
La dimensione oscura è un’opera rigorosissimamente documentata e narrativamente orchestrata alla perfezione. Orchestrazione che si regge, sin dall’incipit, sulla dialettica tra ciò che l’autrice sa e ciò che immagina:
«Lo immagino camminare per una via del centro. Un uomo alto, magro, moro, con folti baffi neri. Nella mano sinistra ha una rivista arrotolata. La stringe con forza, come fosse un sostegno a cui aggrapparsi. Lo immagino andare di corsa, mentre fuma una sigaretta, guardandosi attorno con fare agitato per accertarsi che nessuno lo segua. È agosto. Per la precisione la mattina del 27 agosto 1984. Lo immagino entrare in un edificio di calle Huérfanos, all’angolo con Bandera. È la sede della rivista «Cauce», questo però non lo immagino, l’ho letto. La donna alla reception lo riconosce. Non è la prima volta che si presenta lì con quella richiesta: deve parlare con la giornalista che ha scritto l’articolo contenuto nel numero che ha con sé. Faccio fatica a raffigurarmi la donna alla reception. Non riesco a immaginare né il suo volto né l’espressione che rivolge a quell’uomo così agitato, ma so che diffida di lui e della sua urgenza. La immagino provare a dissuaderlo, dicendogli che la persona che cerca non c’è, che starà via per l’intera giornata, che è inutile che insista, che se ne vada, che non torni più, e immagino anche, perché questo è il mio ruolo in questa storia, che la scena viene interrotta da una voce femminile che, se chiudo gli occhi, riesco a immaginare mentre scrivo».
Nella conversazione con Nona Fernández sul suo ultimo libro, siamo partiti proprio da qui.
I molti “lo immagino”, “questo non lo immagino, l’ho letto”, “non riesco a immaginare”, etc., che punteggiano il libro sin dalla prima pagina, per un verso testimoniano la tua assoluta trasparenza nei confronti del lettore ma, al tempo stesso, mi pare che il ruolo che attribuisci all’immaginazione abbia una valenza molto più ampia…
Tutto quello che è scritto nel libro proviene dalla realtà. Dai materiali d’archivio fino alle scene più domestiche e familiari tratte dalla mia vita. Soltanto i buchi neri, gli enigmi, i punti su cui non ho potuto reperire informazioni sono stati completati grazie all’immaginazione. Immaginare è un modo di rendere presente quello che manca, è un modo di rappresentare. E di capire. “La memoria scritta bisogna inventarla”, diceva Jorge Semprún, scrittore spagnolo che ha raccontato la sua esperienza nei campi di concentramento. Faccio mia la sua idea. Inventarci una memoria. I ricordi sono frammentari, capricciosi e ingannevoli, soltanto l’immaginazione li completa. Lì dove non sappiamo, dove non ricordiamo, dove non abbiamo informazioni, possiamo immaginare. Credo che tutti i miei libri trattino di questo. Dell’impossibilità di ricordare e della necessità di immaginare un racconto che ci contenga.
La figura centrale de La dimensione oscura è Andrés Valenzuela Morales, l’uomo che torturava. Oltre a documentarne la biografia, la confessione, la fuga dal Cile, nel libro costruisci una specie di dialogo a distanza con lui. In una delle lettere ipotetiche, in versi, tra Nona Fernández eAndrés Valenzuela, lui ti chiede (e te lo chiedo anch’io): “Perché vuole scrivere un libro su di me?”
Esattamente come racconto nel libro, da molti anni – da quando, bambina, lo vidi sulla copertina della rivista Cauce – ero ipnotizzata dal personaggio di Andrés Valenzuela. Sentivo di voler scrivere qualcosa su questo strano ed enigmatico personaggio, ma non sapevo cosa. Lì, in lui, c’era qualcosa, un gesto di umanità, di lucidità nel cuore del disastro, che mi seduceva raccontare. La storia recente del Cile è stata scritta in bianco o nero, con pochissimi grigi. Una visione che rende facile pacificare la coscienza e distanziarsi dal male, guardarlo da fuori, nell’altro distante. Un po’ troppo comodo, no? Quest’uomo è un grigio, è un punto scomodo: una vittima e un carnefice, un cattivo e un eroe, un essere inclassificabile, metà mostro e metà angelo. In Cile, i patti di silenzio tuttora osservati dai militari hanno ostruito la giustizia e precluso la serenità dei familiari delle vittime. È una ferita terribile, che continua a suppurare. Concentrarmi su questa storia mi sembrava seducente e necessario. Per prima cosa ho fatto ricerca sul caso cercando informazioni, intervistando persone che l’avevano conosciuto ed erano state con lui, poi ho cercato di entrare nella sua testa, nella sua storia, di seguire le tracce rimaste della sua vita in Cile. Come un detective, mi sono tuffata dentro di lui e nella sua brutale e feroce testimonianza. Valenzuela è il Caronte che mi guida in quella zona oscura che sempre, in modo intuitivo, ho desiderato visitare ed esplorare letterariamente. La sua storia è la scusa per entrare in tutte le storie che la sua testimonianza attraversa. Quelle delle sue vittime, dei suoi compagni, dei suoi difensori, e anche la mia. In questo libro c’è un collage di storie che, tutte insieme, restituiscono la vibrazione di quell’epoca.
In un passaggio del libro, raccontando la tua visita al Museo della memoria e dei diritti umani di Santiago, parli di una “versione legittimata della nostra memoria” in relazione alla quale ti definisci una “guastafeste”. In tutti i tuoi libri, a partire da Mapocho, ritrovo quest’attitudine alla messa in discussione delle ‘versioni ufficiali’, siano esse pubbliche o private.
Sì, è stata un’idea costante della mia scrittura. Il fatto è che non credo alle memorie ufficiali, che di solito hanno l’obiettivo di farci sentire a nostro agio, di uniformare. L’esercizio del ricordo deve metterci in discussione e risvegliarci, non lasciarci in pace.Bisogna diffidare delle verità univoche che ci rassicurano. L’autentica memoria dev’essere viva, non anchilosata, non codificata in frasi celebri o chiusa dentro manuali di storia. La memoria è selvaggia, inclassificabile. È fatta di brandelli, composta da pezzi degli uni e degli altri, da molte versioni. È questo il tipo di memoria in cui credo. Collettiva, imprecisa, che si fa carico della propria sfocatura e dialoga sempre con il presente. La memoria è un atto presente e il compito che rimane alla scrittura è quello di darle un senso.
A proposito del compito della scrittura, La dimensione oscura è un libro ibrido, al confine tra vari generi letterari. Generi su cui si è scritto molto negli ultimi anni: l’incrocio tra reportage e racconto che in ambito ispanico si definisce “crónica”; il gonzo journalism; l’auto-fiction; la letteratura di testimonianza… Mentre lavoravi a La dimensione ti sei posta il problema di che genere di libro stavi scrivendo?
Mentre facevo ricerca per il libro, non mi era chiaro che cosa avrei fatto con tutto il materiale che stavo raccogliendo. A un certo punto ho pensato che sarebbe stato un romanzo di fiction dura e pura, alla John Le Carré, un tipo di libro che ho sempre desiderato scrivere, con spie e traditori e inseguimenti, ma il materiale che avevo davanti era così delicato e sensibile che ho sentito di non poterlo trasgredire con la finzione. Mi sembrava che non c’entrasse, che non fosse pertinente. Tutti i personaggi che circolano in questo libro sono reali e hanno storie che non sono conosciute e meritavano di essere messe a fuoco così, esattamente come sono. Non c’era da inventare, si trattava solo di trovare la chiave per organizzare ed esporre tutto il materiale che avevo accumulato. Il mio lavoro è stato un po’ come quello di un DJ. Ho ascoltato e intrecciato il materiale con tutta la delicatezza possibile e con l’intenzione che l’orrore che racconto avesse una bella base, fosse avvolto in un balsamo che permettesse al lettore di entrare e avere voglia di fermarsi lì. È così che il libro ha cominciato a prendere la sua forma ibrida tra cronaca, saggio, biografia, finzione e documento.
La mia partecipazione in prima persona fa parte di questo disegno. Le mie riflessioni servono per insediare il qui e ora. È quello il posto che ho nel libro, il posto del presente. E poi c’è il tentativo di calare le storie che racconto su un piano domestico e personale. Per questo ho messo la mia vita quotidiana nel libro. Quando capisci che tutte quelle persone che circolano nel libro sono persone comunissime, proprio come te, e quando confronti la tua vita con le loro vite, accade qualcosa di perturbante perché si esce dal territorio della Storia o della finzione letteraria e tutto diventa pericolosamente reale. Spaventosamente reale.
Ma nel fondo, credo che questo libro sia il resoconto di una prolungata riflessione. Una riflessione su genitori perduti e figli orfani. Senza averlo programmato, mi sono resa conto che il punto di vista dei figli delle vittime, che sono parte della mia generazione, era importantissimo, vitale, il motore emotivo della scrittura. Figli rimasti senza protezione. Sperduti, disorientati. A volte, penso di aver scritto un libro per la mia generazione. Un tentativo affettuoso di placare lo sconcerto e il dolore.
Il titolo originale del libro, La dimensióndesconocida, è anche il titolo spagnolo della serie televisiva statunitense che in Italia abbiamo conosciuto come Ai confini della realtà. In che modo hai voluto mettere in relazione questa serie degli anni ’60 con la storia di Andrés Valenzuela?
In The Twilight Zone, o Dimensión desconocida, o Ai confini della realtà, l’assunto che la serie proponeva (e io stessa la percepivo così negli anni ‘70, quand’ero bambina e la guardavo nella mia vecchia tv in bianco e nero) era che vivevamo in due realtà. Una realtà chiara e concreta, che vedevamo in televisione e sui giornali, dove la gente viveva normalmente la propria vita. E l’altra, sconosciuta e nascosta, ma non per questo meno reale. Una realtà che intuivamo ma che in quegli anni oscuri era negata. Allora, la serie appariva come una metafora di quell’epoca. Oggi, quel gioco schizofrenico tra due diverse realtà, che mostro e associo alla serie, non mira ad alleggerire lo spessore storico di quanto accaduto ma a mettere in evidenza la cecità di una popolazione che ha preferito negare, pensare che l’altro piano della realtà, quel luogo in cui abitavano la mostruosità e l’orrore, si trovasse lontano, in una dimensione sconosciuta. Ancora oggi c’è gente che ha la disinvoltura di dire che non sapeva nulla, che non se n’era accorta. Il paese che abbiamo adesso è stato costruito sulle fondamenta di quella dimensione nascosta.
Mentre il mondo scopriva Roberto Bolaño, cresceva in Cile una generazione di grandi narratori: scrittori nati negli anni ’70, la cui infanzia ha coinciso con la dittatura. In molti dei libri di Alejandro Zambra e Alejandra Costamagna (entrambi pubblicati in Italia), di Álvaro Bisama o, tra i più giovani, Alia Trabucco, come nei tuoi, si inquadra la recente storia cilena attraverso una fenditura: la crepa che si apre tra le singole biografie familiari e ciò che accadeva fuori dalle mura domestiche. Da quella fenditura sorgono i silenzi, le contraddizioni, le domande non formulate o senza risposta di un trauma vissuto indirettamente. In questo senso, il tuo romanzo Mapocho ha aperto una strada. È una strada che continuerai a percorrere o è un tema che senti di avere esaurito?
Vengo da una generazione che è quasi condannata al ricordo. Non siamo stati i protagonisti di quegli anni ma è lì che siamo cresciuti. Non lo abbiamo scelto, ma è stato così. In un paese in cui non abbiamo ancora finito di ricordare, di giudicare i colpevoli, di conoscere tutta la verità; in un paese che funziona con la Costituzione lasciata in eredità dalla dittaturae in cui il pinochetismo è ancora vivo e si fa sentire, in un paese che si è accordato con i militari per guardare avanti e lasciarsi alle spalle il passato come se niente fosse, abbiamo il diritto alla scrittura. A cercare di capire, a partire da lì. A mettere a fuoco, a partire da lì. A far luce, a partire da lì. A reclamare, a partire da lì. Il passato è una mappa, una bussola per il futuro. Ogni volta che finisco un libro penso sempre sia l’ultimo che dedico a quest’argomento. Poi però, senza rendermene conto, parto per una nuova scrittura e ne sto scrivendo un altro che mi riporta di nuovo lì. È una specie di Itaca, non faccio che ritornare. La memoria di quegli anni mi ossessiona perché sono convinta che sia l’unico modo per capire il presente.
Tornando a La dimensione oscura: nelle pagine finali ci troviamo nella cucina di casa tua. Riproduci una conversazione con tuo marito, mentre lavate i piatti, in cui fai un parallelo tra il Frankenstein di Mary Shelley e Andrés Valenzuela. L’uomo che torturava è un mostro che si assume il peso della sua colpa. E chiedi a tuo marito: “Il mostro si era pentito. Questo gesto non ha forse valore?”. È una domanda che rimane aperta, o c’è una risposta?
Quella scena è fondamentale per il punto di vista del libro. Lungo tutto il testo cerco di comprendere quell’uomo che torturava e che si è pentito di ciò che ha fatto. Quell’uomo che è riuscito a capovolgere la propria vita e si è messo al servizio delle vittime, che ha fornito informazioni rischiando la morte. Quelle informazioni sono state essenziali e ancora oggi contribuiscono a risolvere processi per violazione dei diritti umani. Il suo gesto è un esempio nel contesto cileno, dove molti militari continuano a rimanere in silenzio, a rispettare un patto di omertà mentre le famiglie delle vittime tuttora ignorano cosa sia stato dei loro familiari uccisi e dove siano sepolti. Ma quell’eroica prodezza dell’uomo che torturava non lo libera né lo assolve da ciò che ha fatto prima. Proprio come dice il mio compagno nella scena che citi, l’uomo che torturava si è pentito, certo, ma questo lo trasforma in un mostro pentito. La sua condizione mostruosa è impossibile da giustificare o dimenticare.