Abbiamo visto La fine è il mio inizio regia di Jo Baier.
Dopo l’orrore delle Torri Gemelle e l’attacco del mondo ‘civilizzato’ all’Afghanistan, noi spettatori del mondo (comici, spaventati ed ex guerrieri) abbiamo letto il Nuovo Millennio anche con gli occhi di due grandi giornalisti italiani, figli del secolo scorso, figli di due punti di vista lontanissimi ma anche vicinissimi per curiosità, positivo egocentrismo e gusto del pericolo.
Due giornalisti tra i più grandi e innovativi degli Anni Sessanta e Settanta, simpaticamente egotisti, ottimi raccontatori e scrittori, entrambi fantasiosi, curiosi e vagabondi. Entrambi morti dello stesso male nel giro di due anni. Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Come si può intuire abbiamo condiviso il senso del mondo, un certo tipo di sconfitta, un amore verso i più deboli e gentili, col toscanaccio Tiziano; quasi nulla dell’odio verso altre civiltà e sull’idea di una supremazia nei confronti degli altri della toscanaccia Oriana. Sono passati pochissimi anni dalle loro scomparse eppure sembra che con loro sia scomparso un mondo e anche il modo di intendere la vita e le passioni degli italiani per non parlare dei giornalisti di oggi. Per quelli che non lo sapessero, Tiziano Terzani è stato un mito di più generazioni. Agli inizi degli Anni Sessanta è stato in Giappone e nel Sud Africa dell’apartheid, a New York ha imparato il cinese. E’ andato a vivere in Asia in pianta stabile con la famiglia, grazie a una collaborazione con il Der Spiegel, prima a Singapore, poi in Thailandia, ad Hong Kong, a New Delhi, quindi nella Cina ancora maoista. E’ stato tra quei giornalisti che sono stati in Vietnam durante la guerra e poi in Laos, tra gli ultimi ad andare via da Phnom Penh (ricordate il film Urla dal silenzio, lui era tra quei giornalisti). Ha abitato cinque anni a Tokio, nel 1976 a Hong Kong un indovino gli predisse che non avrebbe dovuto prendere nessun aereo nel 1993 e lui così fece (e cosa incredibile, il suo sostituto cadde con un elicottero con altri giornalisti in Laos): quell’anno Terzani girò l’Asia per lavoro e andò a trovare sua madre a Firenze facendo tutti i viaggi in treno. Vi immaginate di andare a salutare vostra madre partendo dalla Thailandia, attraversando Cambogia, Laos, Vietnam, Cina, Mongolia, Russia e giungere alla fine in Italia? Ventimila chilometri in treno con pause e fermate varie (potrete conoscere quel viaggio e Terzani grazie al libro Un indovino mi disse). Certo è stato anche un po’ ‘mattarello’ come quando ha fatto iscrivere i figli piccoli in una scuola pubblica cinese o quando è stato arrestato, rieducato per un mese ed espulso dalla Cina con la famiglia o quando ha resistito cinque anni a Tokio nonostante l’esaurimento e la depressione che quel Paese gli aveva procurato per l’infelicità del suo popolo o quando ha deciso di non curarsi con le cure tradizionali occidentali e se ne è andato da solo prima a New York e poi in India. La sua vita è stata incredibile e fiabesca grazie anche alla pazienza e alla tolleranza di sua moglie che lo ha accompagnato, lo ha aspettato anche per molti mesi mentre lui andava nei luoghi di guerra, ha affittato, ristrutturato e arredato case nel Subcontinente Indiano, in Indocina, in Estremo Oriente (spesso meravigliose – ci è capitato per caso di vedere quelle di Singapore e di Bangkok), ha allevato i figli e tollerato piccole stranezze e fughe esistenziali del suo compagno di vita. Ci viene spontaneo citare, pensando alla sua esistenza, il titolo dell’autobiografia di Neruda: Confieso que he vivido. Ma l’eccezionalità di Terzani è dovuta anche al fatto che non è stato solo un giornalista di guerra ma è diventato un profondo conoscitore dell’Asia, dei suoi usi e costumi, delle lingue, della filosofia, della cultura in generale senza tuttavia trasformarsi in un intellettuale saccente o noioso. A volte, invece di scrivere di un politico asiatico o di un attentato ci raccontava del volo di una coccinella sull’Himalaya o delle cavallette che ricordano la primavera o del culto dei grilli da parte dei cinesi. Noi che scriviamo siamo affezionati a lui in modo particolare perché anche se non lo abbiamo conosciuto personalmente, abbiamo condiviso alcuni piaceri come le cene nella dolce città di Luang Prabang, abbiamo bevuto birra sul Mekong al tramonto di Vientiane, abbiamo amato una piccola città ormai in decomposizione come McLeod Ganj in Himachal Pradesh, abbiamo provato la stessa infelicità passeggiando per Tokio.
Un uomo che ha vissuto in modo così intenso, che ha danzato nell’esistenza, nelle ultime settimane di vita si è andato a stabilire solo con la moglie nella loro casa all’Orsigna nella bella campagna Toscana, dopo aver trascorso tre anni presso un grande saggio nell’isolamento dell’Himalaya, e quell’esperienza di vita lo ha riconciliato con il senso della morte e della vita. Lì, all’Orsigna, si è costruito, accanto alla casa, un gompa, una stanza in stile tibetano in cui dorme da solo e riflette anche sul dolore fisico. Lì, convoca suo figlio che vive a New York, vuole rivederlo, parlargli e riuscire a preparare una autobiografia orale che suo figlio poi dovrà mettere per iscritto. Questo difficile film è l’ultima serena e sofferta chiacchierata di un padre con un figlio. Potrebbe essere anche un documentario, potrebbe essere altro. Il regista bavarese televisivo e di documentari Joche Baier invece senza grande fantasia, privo di quello che aveva reso celebre Terzani, costruisce una storia, sì in controtendenza, sì coraggiosa perché sfida le regole dell’oggi con immagini fisse fatte di parole ‘profonde’, silenzi e sguardi, ma parallela al libro, senza un vero ‘linguaggio cinematografico’ forse anche perché il personaggio era ‘eccessivo’, forse perché era veramente complicato raccontare attraverso gli occhi di un protagonista cinquant’anni di storia, di ideali, di vita e di disillusioni, forse perché serviva un altro regista e un altro sceneggiatore. Una domanda ci viene semplice: ma se un giovane privo di conoscenze storiche o un uomo di una certa età privo di cultura contemporanea si avvicinano al film cosa comprendono? Temiamo che possano assistere a un dialogo in cui ci siano solo le risposte mentre le domande se le devono andare a cercare. Diciamo che questo film (scusateci, ma è molto più necessario il libro per chi fosse interessato al personaggio o agli eventi storici) è un testamento spirituale di un uomo che attraverso la curiosità e alcuni valori ha cercato il senso delle cose e la verità intrinseca dei fatti attraverso la passione e anche l’emotività. Ma allo stesso tempo qualche volta ha confuso egotismo con oggettività, ha confuso il rapporto con la moglie e i figli con le sue esigenze più personali. E il “messaggio finale” è quando si è alla fine bisogna essere soddisfatti, privi di rimorsi e soprattutto morire ridendo anche se con un po’ di rabbia.
Come si comprende, anche se condividiamo l’operazione culturale, non salviamo l’idea di regia che c’è nel progetto, tuttavia riteniamo il cast ben assortito e naturalmente Bruno Ganz è colui che si mette sulle sue spalle tutto il film.