Abbiamo visto “ La gabbia dorata “ regia di Diego Quemada–Diez.
La storia ricorda “ 14 Km “ di Gerardo Olivares, invece del deserto del Sahara qui oltre il Chiapas guatemalteco e messicano c’è il deserto di Chihuahua. Nell’altro film ci sono due ragazzi e una ragazza ed anche qui è più o meno lo stesso. In quello il luogo sognato era la Spagna qui los Estados Unidos. Le motivazioni, le difficoltà, la disperazione e la violenza sono simili e il tutto per cosa ? Per arrivare ad una mèta che come una gabbia dorata ( ma dov’è l’oro, per i clandestini ? ) costringe gli esseri umani a passare da una schiavitù ad un’altra non meno terribile. C’è da chiedersi perché si impiegano dieci anni, quattro dei quali per prendere informazioni e registrare centinaia di ore di interviste e testimonianze di prima mano, per realizzare un’opera in fondo prevedibile, manichea che dovrebbe servire a convincere il pubblico della propria teoria fin troppo masticata. Di cui tutti noi abbiamo conoscenza oltre che coscienza. Una messa in scena tra il documentario e la fiction che ci racconta di tre ragazzi sedicenni che devono affrontare sofferenza e violenza e che probabilmente non arriveranno a destinazione perché tutto sembra già scritto dal destino dei popoli migranti del sud. L’autore ha dichiarato: “ Tutto quello che è nel film c’è perché l’ho visto o vissuto o saputo. Ho conosciuto una ragazzina, come Sara, di 17 anni, che ha iniziato il viaggio a 12 anni con la madre che prima di partire le tagliò i capelli, le fasciò il seno e la vestì da uomo. A un certo punto del viaggio la madre è scomparsa. Sono storie molto forti. Ho incontrato una donna che prendeva la pillola perché sapeva che sarebbe stata violentata, era scontato per lei, ho preso dettagli da persone vere per costruire questi personaggi che sono un insieme di più cose. La maglietta di Rambo era quella del ragazzo indio, così come l’idea di salire sull’albero per ritrovare se stesso. Ognuno aveva la sua verità da raccontare. Ho cercato di fare ascoltare le voci di tutti perché diventassero memoria collettiva “. Forse proprio questa immedesimazione e il dolore che ne consegue ha fatto perdere di lucidità drammaturgica l’autore di questa opera meritoria ma abbastanza inutile.
Tre ragazzi, una coppia e un loro caro amico decidono di lasciare la periferia-tugurio di Ciudad de Guatemala ( la terribile zona 3 ) e vogliono passare prima il confine tra Guatemala e Messico e poi quello degli Stati Uniti. La ragazza si taglia i capelli e si veste da maschio per non rischiare un prevedibile stupro o sequestro che la porterebbe a finire in qualche bordello. Ai tre amici si aggiunge un indio del Chiapas che non parla spagnolo ma solo l’antica lingua tzotzil. Li vediamo sin dall’inizio mettersi in marcia con i mezzi più vari e cercando di varcare il primo confine con altri clandestini ( il film è girato in sequenza, con veri migranti ammassati sui treni e con il timore per la troupe di incontrare le bande della criminalità organizzata ). Raggiungono facilmente il Messico ma vengono fermati e depredati delle loro poche cose da due poliziotti che li rimandano indietro. Ma l’ostinazione della coppia non permette ripensamenti e li porta, oltre a separarsi dal terzo amico che preferisce tornarsene a casa, a riprendere il viaggio insieme al ragazzo indio. Ma nell’aria si respira da subito la tragedia, si teme già che non potrà concludersi con un minimo di decenza. I ragazzi sono inesperti, ingenui e del tutto sprovveduti in un mondo di venditori di carne umana, poliziotti corrotti e disperati pronti a vendere chiunque. E il regista spagnolo Quemada-Diez sembra voler raccontare la sua idea e seguire i suoi appunti senza reale soggettività e privo anche di un briciolo di fiction. In ogni angolo compare una disperazione maggiore e non ci illude mai che in quel tipo di vita ci possa essere una redenzione o un colpo di fortuna. E come è prevedibile due su tre non ce la faranno e il terzo finirà solo, disperato, a pulire il pavimento di un macello senza più alcuna speranza o sogno.
Diego Quemada–Diez ha iniziato la sua carriera in modo casuale nel 1995, facendo l’assistente operatore in “ Tierra y Libertad “ di Ken Loach, ha collaborato poi nello stesso ruolo in diversi film, ( di Coixet, di Tornatore ), anche hollywoodiani ( con Stone, Sena ). Il suo primo film corto è un documentario su un ragazzo kenyota affetto dall’Aids ( “ I Want to Be a Pilot “ ); il suo primo lungometraggio è “ La gabbia dorata “ che ha ricevuto a Cannes il premio nella sezione Un Certain Régard, e i ragazzi della giuria del Festival di Giffoni lo ha scelto come miglior film.