In effetti, ogni mattina, che gli diamo il buongiorno o meno, il mondo è lì, cocciuto e fedele, in attesa. Su WeChat, da un paio di settimane, tutte le mattine una ragazza posta una foto dei grattacieli fuori dalla sua finestra, con il messaggio: Zaoan wo de shijie, “buongiorno, mio mondo”. In inglese, questo si direbbe FOMO (fear of missing out), la “paura di mancare [opportunità]”, a metà fra un odierno carpe diem e esprit d’escalier (– da cui, secondo alcuni scrittori, nascerebbe, grazie a Dio, tanta letteratura!).

È un po’ la ragione per cui lo scorso sabato sera sono andato a vedermi un nuovo film – usciva il giorno prima e sarà nelle sale per 22 giorni (lo stesso numero di anni impiegati per girarlo) – in un cinema a Zhongguancun (quarto anello a nord-ovest di Pechino). Le patatine ai gamberetti (marca Miaow Miaow) che ho comprato prima di entrare a dire il vero le sto mangiando ora, mentre scrivo.

È diretto da una delle star del cinema cinese, Jia Zhangke, “quintessenziale regista indie”, di cui non ho mai visto altri film – ho chiesto ad un amico che è esperto, e come fosse ovvio, mi ha detto che i suoi li ha visti “tutti tranne questo”. Pare siano tra i “più cinesi”. S’intitola Fengliu yi dai, “Caught by the Tides” in inglese (“Presi dalla corrente”): letteralmente “Una generazione romantica” o “dissoluta”, in riferimento a quella nata negli anni ’70 e ’80, nel periodo di grandi cambiamenti di “riforme e apertura”, “cresciuta selvaggiamente” e per cui ha “pagato un alto prezzo e incontrato diverse avversità”. *

Protagonisti, si potrebbe dire, sono Qiao Qiao, la donna di cui seguiamo la storia dal 2001, quando faceva la cantante e ballerina nella città natale, Datong (nello Shanxi, regione nord-occidentale non molto distante da Pechino), fino ad oggi – e la Cina. Come riassume la piattaforma Douban, il film narra “il processo di crescita, risveglio e trasformazione di una donna, insieme alla traiettoria del destino della ‘generazione del grande cambiamento’” (che un commentatore descrive con una bella espressione idiomatica, canghai sangtian, anche abbreviato come cangsang: “il profondo mare [si trasforma] in campi di gelso”).
Storie fra Oriente e Occidente

Le scene, infatti, montate “come giocando con un cubo di Rubik”, sono state filmate, dalle semplici videocamere (anche estratte da film precedenti) alle ultime riprese immersive VR (realtà virtuale), senza soluzione di continuità durante la ventina d’anni di cui parlano – finché, dice il regista, “scoppiata la pandemia, ho improvvisamente realizzato di come in effetti un’epoca fosse finita, e con essa anche questo film.” In origine, ispirandosi a Dziga Vertov, il progetto era di farne uno dal titolo L’uomo con la videocamera digitale. Lo terminerà rinchiuso in casa, attraverso la memoria.

L’impressione è davvero che passino gli anni, mentre i personaggi invecchiano e le immagini della Datong di qualche decennio fa (“oggi sembra essere avanzata di duecento, e non vent’anni, rispetto alle riprese originali… Si vede una donna lasciare il un paese con a malapena un telefono, per ritornarvi pochi anni dopo e fare amicizia con un robot”, scrive un recensore), dello spettacolo del Fiume Azzurro, o delle moderne e anonime città di oggi scorrono sullo schermo, come su una tela. Anche le musiche, che giocano in questo film volutamente dai rari dialoghi un ruolo centrale, seguono le mode del tempo, a partire dal rock di Cui Jian e l’elettronica dei primi duemila (alcune sono state realizzate dall’artista taiwanese Lim Qiong, vecchio collaboratore di Jia).

Non pochi tra il pubblico cinese, già navigati nella filmografia del regista della “sesta generazione”, lamentano che buona parte del film non è che un riutilizzo di rimasugli da opere precedenti – in effetti, la prima parte è ambientata a Datong, proprio come Ren xiaoyao (Unkown pleasures, 2002), mentre la seconda a Fengjie, nella municipalità di Chongqing (Sichuan), uno dei luoghi toccati dalla discussa diga delle Tre Gole, tema trattato in Sanxia haoren (Still life, Leone d’oro del 2006). Anche i personaggi dello scorso film, I figli del fiume giallo (2018), avevano gli stessi nomi. La cosa non preoccuperà i profani come il sottoscritto.

Finita la fugace storia d’amore con Guo Bin, giovane (e prepotente) amante di Qiao, l’allora suo agente musicale decide di partire per far fortuna in un’altra provincia, dove “presto si immischia con un trafficante di terreni e proprietà, il cui business dipende però da un politico corrotto che sta per lasciare la città portando con sé molti soldi pubblici” (The Guardian). I due continuano a tenersi in contatto per messaggio, fino a quando Qiao Qiao non parte a sua volta alla ricerca dell’ex, avventurandosi a sud, attraverso il Fiume Azzurro e il cantiere aperto di Fengjian, per vederlo ancora una volta.

Per Zhu Tao – l’attrice che impersona Qiao Qiao e moglie del regista (sua “eterna musa”, invidiata da alcuni e adorata da altri), a confondere ancor più il confine tra finzione e documentario – “questo film è un dono prezioso. Ho avuto l’opportunità di raffigurare le vite delle donne cinesi attraverso i loro venti, trenta e quarant’anni.” Ma se “nel film il personaggio femminile rappresenta coloro che sono stati logorati dalla corrente dei cambiamenti”, dice Jia, “Bin rappresenta quelli che ne sono usciti in frantumi”: “una riflessione sul ruolo dei maschi nella regola della giungla di quest’epoca”.

Come fa notare un commentatore, è una (mancata) storia d’amore tra due dei molti “puri strumenti” (gongjuren, cioé persone-strumento) dell’epoca: Qiao e Bin, potrebbero essere realmente dei commessi di mezz’età che si incontrano oggi in un centro commerciale di una qualsiasi città cinese.

L’ultima parte si svolge nel 2022, alla fine della pandemia (si sentono in sottofondo i commenti dei mondiali in Qatar). Riguardando gli spezzoni filmati negli anni, infatti, Jia ebbe l’idea che “questo film non dovesse soltanto fermarsi al passato, ma avere una prospettiva più ampia: da quella di oggi, vedere come passo dopo passo, dagli anni pieni di vitalità e tolleranza fra le persone, con una società in cui si avevano tante nuove cose da provare e possibilità dei duemila, si sia arrivati ad oggi; e anche come dalla società di internet, si stia entrando in quella dell’intelligenza artificiale, per questo ho anche girato la parte contemporanea”.

Dopo essersi recato a Zhuhai (Guangdong), dove lo si vede tentare con dei giovani di imparare a fare l’influencer su Tik Tok, Bin ge (“fratello Bin”), zoppo e provato dagli anni, ritorna nella natia Datong dove, per caso, riconosce, da sotto le mascherine, in una commessa di un supermercato, proprio Qiao Qiao. Non posso lamentarmi, le dice, non ho un lavoro ma almeno adesso abbiamo un appartamento… Qiao, come per tutto il film, non dice una parola: nella scena finale la si vede lasciare a Bin una busta della spesa, svoltare il gilet del Walmart, indossare dei bracciali fosforescenti e aggiungersi a un gruppo di persone che intanto stanno passando per la corsa serale, in una strada deserta.

Come forse, nel bene e nel male, molti di coloro che hanno vissuto o avuto a che fare con questo paese negli ultimi anni (per me, la prima volta fu nel 2015, avevo vent’anni), mi sono riconosciuto nel silenzio finale della protagonista. “La gente parla meno di quanto facesse nel 2000. Le donne allora potevano cantare insieme” commenta Jia in un’intervista, riferendosi all’incipit del film. “Adesso non possono farlo. Quelli erano tempi più appassionanti, entusiasti. Oggi comunichiamo più che altro via internet.”

La città deserta ricorda la solitudine e la stranezza dell’atmosfera ovattata della pandemia, e la normalità diffidente, asettica e pretenziosa, delle città nel post. L’ambiguità di Qiao, tanto sola che soltanto un robot all’entrata del supermercato le chiede “Oggi come stai?”, e del passo dei corridori a cui si unisce alla fine, è forse quella di milioni di persone, delle loro domande di fronte a un presente che non dà tregua,difficile da comprendere. Non a caso, emblema del film è una vecchia statua di un’astronauta lanciata verso il cielo, a cui Qiao torna a volgere uno sguardo ormai disincantato.

Del film – nominato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes lo scorso maggio –, leggo, per la riproduzione nel continente, sono state modificate non poche scene che si riferivano direttamente a leader politici, eventi storici o temi sensibili. Un utente su Douban ne conta dodici (che il commento stesso non sia stato oscurato, dimostra a che punto sia legittimato l’uso della censura), tra cui: quella in cui un’immagine di Mao viene bruciata – sostituita con un’altra di propaganda operaia –; cancellata la notizia che registra l’incontro di Jiang Zemin con una delegazione americana, in occasione dell’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, come il coro e i dialoghi tra i fedeli nella scena nella chiesa cattolica; anche, pare, un’intervista a lavoratori migranti e i riferimenti all’omosessualità di un personaggio come a malattie sessualmente trasmissibili; alcuni particolari (come la messa in mostra di alcune misure di prevenzione, le code per fare i test molecolari, ecc.) e notizie alla radio in sottofondo delle scene durante la pandemia.

Comunque sia, il film è consigliabile per chi voglia farsi un’idea della Cina degli ultimi decenni. Uscito dal cinema, sento anch’io di nuovo il gusto del guo rizi (“passare la giornata”), dei suoi piccoli insignificanti particolari. Passo da un fruttivendolo – sono le 10 di sera, fuori ci saranno 4 o 5 gradi –, mi viene da sorridere ai commessi, all’anziana cliente di passaggio che mi fa i soliti complimenti per il mio cinese “perché gli altri stranieri non mi capiscono come io non capisco loro, e quindi finisco per parlargli a gesti” – “ci sono le app di traduzione, adesso”, le dico scherzando.

Una generazione selvaggia: che ingenui, e che lusso, riassumere in uno slogan, in un solo personaggio un’intera generazione, un’epoca. Ma per qualche istante, quella stranezza sbiadisce, mentre i rimorsi ricolmano di stupore e, anche se non meno increduli e interdetti, ci si riconosce e ritrova più profondamente simili.

* I commenti del regista o altri attori, sono prese da interviste e citazioni in articoli di diverse testate cinesi e internazionali, come Variety, China Writer, Screen Daily e The Paper.

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