‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino, Premio Oscar al miglior film straniero Il critico Andrea Minuz riflette sul film di Paolo Sorrentino tracciando un ampio quadro che va dai giudizi sul film, polarizzati tra adoratori e detrattori, al paragone con “La Dolce Vita’” (scoprendo anche un inedito parallelo con ‘ll Grande Gatsby’). The Kino Review ripubblica con piacere il suo articolo, già apparso in Fattore Erre e sul settimanale Gli Altri di venerdì 31 maggio 2013. Il titolo originale del post era: “Ricordati che è un film comico’”.  

Prima di essere un capolavoro-assoluto o un insopportabile campionario di tutti i cliché del film d’autore, o un’oscura via di mezzo tra i due, “La grande bellezza” è un oggetto curioso. Non per via dello stile, della visionarietà, o dell’assenza di una trama martoriata dal flusso di coscienza. Fosse per questo, il film sarebbe in ritardo di almeno cinquant’anni su tutto.

Inclassificabile  è il modello di consumo culturale che innesca; una dilatazione del film-per-pochi verso inediti confini e mistici fraintendimenti. Tra le tante cose che Sorrentino va dicendo in questi giorni per le Feltrinelli d’Italia, ce n’è una particolarmente interessante: “Quando girai Il Divo pensavo che si scatenasse il pandemonio, invece non è successo nulla. Ho girato questo, e inaspettatamente è arrivato il pandemonio“. Vero. Ma perché?

Perché siamo più pacificati col fantasma di Andreotti che col fantasma dell’Arte, anzitutto. E perché anche se lo prendiamo per il culo in ogni modo e fingiamo di disprezzarlo, o dichiararlo estinto, in Italia l’intellettuale è ancora una figura mitica che fa vibrare corde profonde. Lo è perché incarna un sogno, anzi due. La ricerca del Bello per il Bello e un’esistenza slegata dai soldi e surtout dal lavoro (che fingiamo di esaltare come valore, ma non possiamo che disprezzare in privato). Ma andiamo con ordine.

Già un’ammucchiata di detrattori guidata dai Cahiers du cinéma e da Dagospia, non capita tutti i giorni. Di là, invece, ci sono Variety,  Guardian, i fan di Terrence Malick o Venditti e Selvaggia Lucarelli. Poi, appunto, c’è il pubblico. Sì, ma quale? Chi va a vederlo, a chi piace e perché? Qui viene il difficile.

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Al primo week-end in Italia era secondo al box-office, dietro Fast and Furious 6. Forse è solo l’eco dell’anteprima di Cannes. O forse no. Mentre sui giornali montava il parallelo con La dolce vita, in sala il film ingaggiava un più concreto duello col Grande Gatsby di Luhrmann. Si dirà, ma che c’entra? Uno è un film d’autore, anzi ‘impegnato’ come hanno preso a scrivere in molti, l’altro un giocattolone-americano, come si dice da noi in questi casi. Invece c’entra. Sono due film che puntano su una regia esuberante, che rileggono, anzi attualizzano un capolavoro del XX secolo, che intrecciano euforia e decadenza, feste da ballo e pulsione-di-morte, che hanno la parola “Grande” nel titolo e che durano 140 minuti (ampiamente sforbiciabili). La Grande Bellezza però offre in più il vantaggio di legittimare quelle due ore e venti nella chiave di un’esperienza artistica. Non c’è una storia, ci sono le visioni. E per quanto Sorrentino possa negarlo, agli occhi del pubblico il legame Fellini-Grande Bellezza è più forte di quello Fitzgerald-Di Caprio.

Per ogni stroncatura circolata in rete, sotto l’articolo si leggono i commenti per lo più indignati degli spettatori che, tra un’invettiva e l’altra, pescano a piene mani dal repertorio dannunziano; ed è un tripudio di “opera di sommo cinema”, di “poesia pura”, di “fremiti di arte vera” e così via. Poi c’è, immancabile, il richiamo patriottico (Vergogna! Attaccate il nostro cinema mentre all’estero ne parlano bene). È vero, all’estero lo hanno elogiato, anche se sul Guardian, Peter Bradshaw scrive che “gli invitati alle feste a un certo punto subiscono una metamorfosi e diventano dei fenicotteri” – che vuol dire che a quel certo punto Bradshaw si è addormentato, ha riaperto gli occhi, ha visto la terrazza invasa di uccelli e non capiva cosa fosse successo.

GATSBY

Ma insomma, sia issando la bandiera del mistero dell’Arte, sia il tricolore, sia restando in silenzio (non ci ho capito niente, ma sarà colpa mia) in molti difendono il film dallo snobismo di una parte della critica italiana. In molti durante il film ridono. Non sono meta-risate ironiche. Non si ride dei fenicotteri photoscioppàti, dei flashback sull’isola più brutti di uno spot brutto di Dolce e Gabbana, delle impennate di misticismo. Si ride alla lettera, per le battute di Buccirosso o le gag di Servillo. Ma mettendo assieme i due tipi di risata (e di due tipi di pubblico) ti rendi conto che la vena comica è uno dei punti di forza della Grande Bellezza, non si capisce quanto consapevole ma pare di no, perché nel film Verdone è perentorio: “In questo Paese, se vuoi essere preso sul serio devi prenderti sul serio”. Eppure, se inizi a guardarlo come la nemesi trascendentale della commedia all’italiana, che intercetta il pubblico del film medio assicurandogli che no, non sta vedendo un film-medio perché c’è anche la noia contemplativa, si apprezzano meglio epifanie tipo la Ferilli ammollo in piscina con la ciambella che ascolta Venditti in cuffia e non può usare i braccioli perché “me irritano ‘ascelle”.

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All’epoca de La dolce vita e L’avventura, per spiegarsi le file di gente che andava al cinema a vedere due film così difficili, Vittorio Spinazzola coniò la formula ‘superspettacolo d’autore’. La cosa funzionò per gran parte degli anni Sessanta, poi cadde in disgrazia. Quali bisogni serviva il superspettacolo d’autore, al di là del suo valore artistico? Anzitutto, intercettava un ricambio decisivo dei consumi culturali. Il nuovo spettatore che emergeva col boom economico, maschio (soprattutto), scolarizzato e di area metropolitana. Vedere L’Avventura e La dolce vitasignificava assumere le pose del consumo borghese, anche per chi borghese non lo era. La noia, in caso, non solo non era un problema, ma almeno fino a un certo punto faceva parte del gioco. Però il pubblico che si precipitò a vedere La dolce vita era soprattutto attirato dagli scandali; dalle orge di cui si favoleggiava sui giornali e dalla censura che minacciava di ritirarlo dalla circolazione. Come si ricorderà nella formidabile scena di Divorzio all’italiana, quando Germi racconta l’arrivo del film in paese: “Ci sono orge degne di Tiberio, si scambiano le mogli, streeptease…Amuninne picciotti!». Ora, con La grande bellezza, è l’arte, la promessa di un’esperienza di vero-cinema cioè poetico, a fornire l’innesco per il pubblico.

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Dentro la cornice dell’effimero, Fellini sperimentava la ferocia di uno specchio deformante puntato contro la società italiana. Dentro la cornice dell’arte, Sorrentino sperimenta inediti orizzonti della parodia e della commedia all’italiana. Ma forse non lo sa.

E al fondo di tutti gli echi modernisti e dei richiami felliniani c’è un biglietto. Quello con su scritto “ricordati-che-è-un-film-comico” che Fellini appiccicò sopra la macchina da presa mentre girava.

 

Andrea Minuz si occupa di storia del cinema, con particolare attenzione al rapporto tra processi culturali e forme della visione. È autore di saggi e monografie tra cui, ‘Dell’incantamento. Hitchcock, Bergman, Fellini’.

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