In quanti modi si può iniziare un discorso su La grande illusione? Non ne ho idea. In ogni caso, per me può iniziare solo nel modo che segue.
Il capitano de Boëldieu (Pierre Fresnay) giace in un letto, agonizzante: si è preso una pallottola nel ventre per consentire la fuga ai commilitoni Maréchal (Jean Gabin) e Rosenthal (Marcel Dalio). L’ufficiale che l’ha colpito, il capitano von Rauffenstein (Erich von Stroheim), congedato il cappellano militare, si accosta al moribondo con aria affranta: “Vi domando perdono”. “Avrei fatto lo stesso”, risponde l’altro, “Francesi o tedeschi, il dovere è il dovere”. “Avevo mirato alla gamba…”, dice il tedesco, quasi per scusarsi. “Eravate distante, e c’era scarsa visibilità… E poi, io correvo”, replica il francese. Ma von Rauffenstein: “Non ho scusanti. Sono stato maldestro”. “Fra noi due”, riprende de Boëldieu con un filo di voce, “non sono io quello da compatire. Fra poco per me sarà finita. Ma per voi non è ancora finita”. E poco dopo, sempre sullo stesso tono: “Per un uomo del popolo, è terribile morire in guerra. Per voi e me, è una buona soluzione”. “E io l’ho perduta”, conclude l’ufficiale tedesco.
Si avvicina ai due la suora infermiera, pregando il ferito di non affaticarsi. Von Rauffenstein si allontana, e mentre sta buttando giù d’un sorso un bicchiere di liquore, la voce della donna lo richiama al capezzale. All’ufficiale non rimane altro che chiudere gli occhi al cadavere. Poi si reca alla finestra, dove, sul davanzale, si trova un bellissimo geranio: in una scena precedente, proprio discorrendo con de Boëldieu, von Rauffenstein aveva precisato che si trattava dell’unico fiore della fortezza (“Qui attorno non crescono che ortiche”). E, con gesto insieme rituale e misurato, lo recide. Fuori cade la neve.
Quella che ho appena descritto è la scena (cinque lunghe inquadrature) che chiude il secondo atto de La grande illusione. Ho scelto di iniziare così non solo perché è la mia scena preferita, ma anche perché credo riassuma al proprio interno diversi elementi tematici – e stilistici – dell’opera. Ambientato durante la Grande Guerra, il film di Renoir non mostra né una trincea, né un assalto alla baionetta, né un duello aereo (lo stesso regista, che aveva combattuto tra le fila dell’aviazione, scrisse il soggetto basandosi sui propri ricordi e sui racconti degli amici Pinsard e Spaak). Renoir “sublima” la guerra, spostando l’azione all’interno di quella sorta di “universo parallelo” che è il campo di prigionia, un luogo perfetto per mettere a confronto personaggi eterogenei per provenienza, cultura e, soprattutto, classe sociale. Ne La grande illusione vediamo interagire fra loro un aristocratico (de Boëldieu/Fresnay), un meccanico (Maréchal/Gabin), un ricco borghese, ebreo e cosmopolita (Rosenthal/Dalio), un attore (Cartier/Julien Carette), un ingegnere del catasto (Gaston Modot) e un insegnante (Jean Dasté). Ognuno di essi rappresenta in qualche modo – nell’eloquio, nei gesti, nelle abitudini – un carattere ben preciso della propria classe di provenienza (e della Francia del 1937), ma al contempo sfugge alla qualifica di personaggio-simbolo.
La frizione tra l’individuo (l’essere umano) e il “ruolo” (la classe, la nazionalità), è infatti l’autentico nucleo tematico del film – nonché dell’intera opera di Renoir. Le differenze linguistiche contano poco rispetto alle “regole del gioco”: Maréchal può fraternizzare con un ufficiale tedesco perché da civile fa il meccanico come lui, esattamente come fra de Boëldieu e il suo omologo germanico si crea subito un’intesa determinata dalla comune appartenenza all’élite, che in alcuni dialoghi si esprime nell’adozione di una lingua “neutrale” come l’inglese.
Se da un lato Renoir dichiara ad alta voce che le barriere nazionali sono solo artifici (“Le frontiere sono un’invenzione degli uomini, la natura se ne infischia”), dall’altra suggerisce che un’adesione rigida alle regole sociali non può che condurre all’estinzione. È quello che accade a von Rauffenstein (“il vero personaggio tragico del film”, ha giustamente osservato Giorgio De Vincenti), “fisicamente” incapace, come indica il corsetto metallico che ne imprigiona il busto (un’idea di von Stroheim, cui Renoir lasciò ampie libertà nella costruzione del personaggio), di adattarsi al mondo che sorgerà di lì a poco: “Io non so chi vincerà questa guerra, se la Francia o la Germania, ma sarà la fine dei Rauffenstein e dei Boëldieu”. Non a caso spetterà a lui uccidere l’amico, suggellando così la fine dell’aristocrazia, paradossalmente in nome di quegli stessi principi – “il dovere è il dovere” – che ne avevano retto l’esistenza.
Travestimenti e messinscene, del resto, trovano posto, a mo’ di contrappunto, in diversi momenti del film: il personaggio di Cartier, attore di vaudeville, autentica “citazione vivente” (memorabile l’esibizione sulle note di Si tu veux faire mon bonheur) di quel teatro leggero così amato da Renoir; la celeberrima sequenza dello spettacolo messo in piedi dai prigionieri, che si trasforma da balletto en travesti a esecuzione della Marsigliese; le allusioni alla guerra come gioco/spettacolo: “Di qui soldati che giocano come bambini, di là bambini che giocano a fare i soldati”(jouent, nel doppio significato che i francesi attribuiscono al termine); lo stesso stratagemma con cui de Boëldieu riesce a distrarre le guardie, suonando con il flauto C’era una volta un piccolo naviglio è una sorta di assolo, un saggio di bravura.
E al teatro – in particolare alla lirica, con le sue arie e i suoi recitativi – sembra guardare la regia di Renoir, con la sua attenzione agli attori e ai loro movimenti nello spazio profilmico: la mobilissima macchina da presa dà vita a duetti, terzetti e quartetti di personaggi semplicemente attraverso i movimenti di macchina, filmando i dialoghi senza stacchi (le scene ambientate nella camerata dei prigionieri, il citato dialogo finale tra i due ufficiali di carriera), come un occhio che, quasi per caso, si trova a esplorare l’inquadratura in profondità, spesso partendo da un dettaglio e allargando poi il proprio sguardo a tutto quel che sta intorno.
Arrivato a questo punto, mi rendo conto di aver illuminato solo una piccola porzione del film, forse nemmeno la più profonda. Si potrebbe proseguire approfondendo il tema del pacifismo, così fortemente (e giustamente) sottolineato dallo stesso Renoir; bisognerebbe spiegare il titolo del film (l’illusione di un mondo senza guerre? L’illusione di una società senza classi?); sarebbe giusto ripercorrere le traversie del film dopo la sua distribuzione, con Germania e Italia che proibiscono il film e Céline che accusa Renoir di essere al soldo dell’ebraismo internazionale (un’accusa di segno opposto penderà sul film nell’immediato dopoguerra)…
Con grande semplicità André Bazin ha scritto che il cinema di Renoir sembra fatto “con la pelle delle cose. Da ciò deriva che la sua regia sia così spesso una carezza”.
Una carezza. Forse è questo il segreto della generosità di un film come La grande illusione: libello antimilitarista, manifesto poetico-politico del Fronte Popolare, straordinario affresco di un’epoca di transizione.