Dorothy Baker mette subito in chiaro le cose con il lettore. Scrive che non sta per raccontare la caduta di un grande eroe, ma qualcosa di maledettamente più interessante. Nella vicenda di Rick Martin c’è un cuore che suona animato da un talento formidabile, che non ha alcun rispetto del corpo mentre asseconda il destino.
Fazi pubblica un classico, La leggenda del trombettista bianco (234 pagine, 16 euro, traduzione di Stefano Tummolini), il primo romanzo sul jazz, col quale l’autrice cresciuta in California esordì nel 1938. L’opera prima dell’allora trentunenne riscosse il favore della critica e conquistò un buon pubblico di lettori. Come nel libro Baker ha sempre provato una certa soggezione verso le implicazioni totalizzanti del talento, e combattuto la sensazione di non aver mantenuto le promesse dell’esordio che l’ha consumata nei successivi venticinque anni di carriera. L’irrisolvibilità artistica appare come un’ombra costante e al contempo la ragione che agita il trombettista.
Rick si aspetta molto dalla vita, perché ha un dono da difendere, che lo sottomette all’arte. L’autrice prende una posizione, dichiara una passione smisurata per il proprio personaggio che s’ispira alla musica, ma non alla vita, del musicista Leon Beiderbecke, dipendente dall’alcol, deceduto appena ventottenne: «Prima o poi smetteranno anche di suonare i suoi dischi, e la puntina gratterà a vuoto sul solco. Quando quel momento arriverà, Rick Martin sarà morto davvero, morto e sepolto ed è un pensiero che mi fa star male».
E ancora: «L’impulso creativo è l’impulso creativo, in qualsiasi campo lo si trovi. E Rick faceva così bene quello che sapeva fare che personalmente continuerò ad avere i brividi ogni volta che sentirò pronunciare il suo nome». Nel 2007 l’ottimo riscontro ottenuto dalla ripubblicazione di Cassandra al matrimonio e poi di questo titolo, come a ragione asserisce Emily Cooke, ha smentito il senso di fallimento, inadeguatezza che ha accompagnato il suo tramonto. Scomparve nel 1968 a causa del cancro, è viva nei suoi due libri più belli, ancora letti. Baker avrebbe voluto essere una musicista. Da bambina suonava il violino, al quale rinunciò per una deformazione alla mano provocata dalla polio. Ha sperimentato quindi la materia trattata.
Ogni situazione cattiva è una canzone blues che aspetta di avverarsi, sosteneva Amy Winehouse. Baker ci introduce in un ambiente familiare desocializzante. Rick è orfano di madre, morta a causa del parto. Il padre lo molla ai parenti più stretti, sostanzialmente indifferenti. Sappiamo che fino all’età di otto anni vive a Los Angeles. Trascorre la maggior parte del tempo da solo, leggendo qualsiasi tipo di libro. Mostra i segni precoci di una vita contemplativa, scrive Baker.
È interessante come l’autrice descriva l’istituzione scuola, costrittiva, incapace di riconoscere, dunque tutelare, il talento diverso di Rick. Il Tribunale per i minorenni su ingiunzione della Lowell High School vuole metterlo sulla retta via. Sappiamo che alle elementari impara a strimpellare il piano, e legge in modo fulmineo la musica. Poi quattordicenne si sveglia all’alba per suonare il pianoforte alla Missione delle Anime. Davanti alla vetrina del banco dei pegni respira gli strumenti che non può permettersi. Il resto è una questione d’istinto, di dedizione e determinazione feroce a essere il più bravo di tutti.
La leggenda del trombettista bianco si fonda sulla storia di un’amicizia profonda. A cambiare l’esistenza di Rick è un incontro. Smoke è un nero che lavora saltuariamente come lui al bowling per sbarcare il lunario. Baker restituisce il clima della tensione provocata dal razzismo. La loro amicizia ha però la proprietà mistica della musica, anestetizza il dato razziale. Tra l’altro nel titolo originale dell’opera (Young man with a horn) non è segnalato il colore della pelle. Smoke gli spiega il ritmo, la pienezza della nota. Il bianco Rick ha la stoffa per emergere in una jazz band negra. Smoke viene prima della musica, che al Cotton Club era purissima, un interesse che Rick con i propri eccessi non tradisce mai. Smoke ci propone la più esaustiva delle argomentazioni riguardo al talento: «Rick, ti vai a pescare le cose prima che gli altri sappiano che esistano e poi le tiri fuori come se cadessero dal cielo».
Colpisce la qualità delle descrizioni in cui c’è tutta la psicologia del nostro personaggio: «In termini di colore, gli occhi di Rick erano difficili da descrivere; più che avere un colore preciso, erano luminosi e intensi. Bruciavano, come gli occhi di un febbricitante o di un fanatico, di un fuoco profondo e deciso, che minacciava di travolgerti se non lo tenevi a bada».
La scrittrice pone il proprio sguardo sugli anni Venti, su quella che forse fuori luogo è definita età del jazz, sulla fede verso un progresso effimero che culmina con la Grande Depressione del ’29. E accoglie il rifiuto del suo musicista. Sostiene che Rick sarebbe potuto essere uno dei così tanti giovani di belle speranze che si stavano facendo una posizione nel mondo della finanza. Non aveva però né l’aggressività, né lo spietato ottimismo dei venditori.
A lui della musica non importavano i soldi, quella roba che cercava di fare non esiste al mondo. Non si può fare con una tromba e in quella ricerca c’è il principio di autodistruzione. Rick ci dice qualcosa sulla dolce malinconia del riconoscimento, dell’applauso, dell’essere una stella. Il successo si cura solo nei locali intimi, nei sottoscala, che forse sono il posto più sincero dove la vita e la musica possano accettare di incontrarsi. Fare musica solo con quelli della sua qualità. Lui aveva bisogno del conforto dello sguardo affacciato dal molo sull’infinitezza dell’oceano, l’unico punto di raccordo con l’esistente.
L’amore impossibile e il matrimonio con Amy North che tormenta Rick sembra marginale rispetto alla necessità portante della narrazione. Della sposa conosciamo l’omosessualità, che ricorre in altre opere bakeriane, l’assenza di talento che intende compensare con quell’unione e in qualche modo il bisogno di Rick di sentirsi amato.
A Dorothy Baker interessa raffigurare quel punto esatto in cui genio e follia sono inscindibili almeno per qualche istante, prima di prendere ognuno la propria strada. Viene in mente una scena splendida del documentario Amy – The girl behind the name. Winehouse è con Tony Bennett presso gli Abbey Road Studios per registrare un duetto, Body and soul. Si accerta che prima dell’incisione ci sia una prova. È felice perché avrebbe fatto ingelosire il padre. È ironica, eccitata, poi insoddisfatta della propria interpretazione. «Sono nervosa». Si scusa con il mito della propria infanzia, vorrebbe addirittura rinunciare: «Dovremmo ricominciare da capo. Sono stata terribile, perdonami, non voglio farti sprecare il tempo».
Lui la rassicura che sta andando benissimo, che può arrivarci a quella nota. «Tu vai di fretta? Io no, allora abbiamo tempo». Poi trova la chiave d’accesso alla sua voce, chiedendole se sia mai stata influenzata dalla propria grande amica Dinah Washington. Amy esplode, il volto s’illumina, tira fuori il carattere davanti al microfono. È luminosa. Poi domanda della precoce scomparsa di Washington e confessa: «Il minuto in cui hai iniziato a parlare di Dinah l’abbiamo fatto. Game over». I think we got it.
Are you pretending, it looks like the ending
Unless I could have one more chance to prove, dear.
È morta a ventisette anni. Ventisette. «Volevo sottrarla alla droga che l’avrebbe uccisa. Era un piccolo angelo, un piccolo angelo. Che devastazione», affermerà poi Bennett. Baker scrive che Rick, mentre era seduto al piano e suonava con la testa piegata di lato, le labbra arricciate e i capelli illuminati dal sole, non si accorgeva della gente che entrava nella Missione delle Anime. Ed essi erano convinti che fosse un angelo. Ha pianto a lungo Bennett. Amava l’unicità, l’irripetibilità dunque l’onestà delle interpretazioni di Winehouse. Per usare le parole dell’autrice nel romanzo risuona la verità, parlando del confine sfumato tra il saper suonare e il sapersi adattare alla vita, della differenza fra bene e male in quella forma d’arte chiamata jazz.
Rick, portato in una clinica per disintossicarsi dall’alcol, mormora qualcosa all’amico di sempre, a Smoke, a proposito del tempo, del proprio tempo: «Se fossi nato in un altro mondo, in un altro posto, in un altro momento, tutto sarebbe stato diverso, il nome Martin sarebbe rimasto accanto a quelli di chi ci credeva come me, di chi ci teneva alla musica e la suonava così bene che ancora adesso è bella e lo sarà per sempre. Ma un menestrello che può mai fare? Suona la sua canzone e poi basta, e solo lui può sapere che canzone era. Una cosa triste; ma tutto lo è, e alla fine c’è un’altra cosa da dire. Quello che conta, in fondo, è dedicarti alla cosa in cui credi, anche se ti fa sbandare lungo il cammino e ti prende a cazzotti in faccia».