Cosa porta Borges a essere Borges, e me ad essere me stesso? Se mio padre fosse ancora vivo, cosa penserebbe di me? Credo che sarebbe contento e fiero di tutto quel che sto facendo. Voglio dire, del lavoro che svolgo, dei libri che ho scritto, degli articoli che creo. Dei nuovi sacrifici, insomma, che ho appena iniziato a compiere. So che non aveva ostacolato me, né le mie sorelle, quando avevamo deciso di non intraprendere la sua carriera. Doveva essere una persona speciale, mio padre. E per quei pochi ricordi che ho di lui, lo è stato senz’ombra di dubbio.
Cosa porta Emily ad essere Emily. E Vincent a essere se stesso. Accade qualcosa d’inspiegabile. E accade più e più volte. Poi accade definitivamente. Compiutamente è “il nuovo inizio”. Si compie un’indefinibile decisione, definita per sempre. Scatta un motivo, il cuore di noi stessi. Se Baudelaire non fosse stato lui, saremmo privi di qualcosa d’enorme. L’umanità sarebbe mancante di una mancanza. Privati del massimo, mancheremmo di tutto.C’è forse come un angelo invisibile, una forza estrema, che ci soffia accanto. Sappiamo già che credere all’invisibile è per noi quasi cosa scontata. Siamo vergini, per nulla indispettiti, pronti al fallimento e all’abbandono. Con una incoscienza vigile e tremenda e invincibile, seppur di vetro.
Chi si sarà posto le stesse domande? Cosa pensava veramente Pirandello di se stesso? Che la chiamata invisibile l’avrebbe portato, dentro, attraverso il mondo intero. Ma per me, sentirmi lontano, non essere di questo mondo pur abitandolo, che significa? Non è tempo di troppe domande. Occorre semmai riferirsi a qualcuno, una volta chiarito quel qualcosa. Dopo la chiamata, bisogna interloquire, perfino con noi stessi all’occorrenza. Come in questo esercizio di scrittura. Altrimenti ci si improvvisa. L’altro lettore, o i venti, trenta, sessanta lettori che abbiamo, siano la stima massima verso noi stessi. Non occorre altro. Persino se l’unico lettore fosse nostra moglie o, per davvero, se fossimo noi soltanto. Avere una coscienza del genere porta a sbaragliare qualsiasi cosa. Pochi sparuti lettori dominano il retroscena della vita? Sarà l’incentivo a continuare.
Una cosa però è certa. Gli incontri della vita hanno portato Borges a essere Borges. E Charles ad essere Baudelaire. Gli incontri sono fondamentali per la letteratura. Senza incontro, non ci sarebbe alcuna letteratura, nessuna esistenza. Ed essi sono sia fisici, che di lettura. Entrambi imprescindibili. D’altronde, cos’è una storia se non un intreccio di incontri e di storie? Ci si racconta per non terminare la magia di qualcosa d’invisibile, ma, al tempo stesso, tangibile. Quel qualcosa che irradia dentro di noi il mistero della gioia. Un godere di ciò che altri, prima di noi, hanno tentato, riuscendoci. Sfidando tutto e tutti. Mio padre. Manca. Senza di lui non sarei il poeta che tanti anni fa incominciava a credere in se stesso. Timidamente, forzatamente, con supponenza e ignoranza. Senza, poi, i successivi incontri (fondamentali!) non m’incamminerei oggi verso l’unico sentiero che pretende tutto me stesso, tanto da chiedere di essere percorso con coerenza e fino in fondo.
Se non ci fossero stati i grandi, noi esisteremmo? E se sì, come vivremmo? Impoveriti, cattivi, zotici. A farci la guerra, ma non per amore. Intendo ricordare che si passa come un testimone. La staffetta deve proseguire, imperterrita. Dapprima a nostra insaputa. Poi per testimonianza, come la fede; perché la letteratura è fede. La letteratura non è politica. Se deve essere qualcosa che va oltre la letteratura, essa è fede. Su questo non ho dubbi. La sacralità della vita insegue la sacralità della parola. È consustanziale. Non può essere altrimenti. Imprescindibili, i poeti si osservano, compiendosi nel verbo. Dunque si crede all’impossibile. Nell’invisibile vediamo la via, il bianco, il richiamo infinito. Il branco ci chiama. Il branco sono gli scrittori e i poeti della letteratura universale. Il branco non è stanziale, varia, muta, affascina. Richiama, ti chiama. Inaspettatamente. E noi siamo pronti, sempre, a un nuovo inizio.
Cos’ha portato Borges a sentire il richiamo della tigre, e Victor Hugo a sentire, indistinto, nella foresta, il ruggito del leone? Richiami silenziosi, ma talmente concreti, da far vibrare le parole. Le parole che sono stelle. Esse brillano. Come i grandi. Scrivere l’indissolubile. Ecco cosa fa di uno scrittore, un poeta. Come fosse, e lo è, un vincolo. Scrivere nel rischio della morte. Per i morti. Per ringraziare i morti della vita trasfusa in ogni parola eterna. Si combatte per una vittoria silenziosa. L’invisibile è il silenzio.
Anacoreti e presenti. Nascosti ma frizzanti. Disposti a fronteggiare il limite, che fa di un disabile il genio di se stesso. Un genio da donare al mondo, a tutti, per tutti. Quando? Non ha importanza. Essere se stessi, vivi, presenti a ogni mistero. Disporre le lettere a formare falò, fuochi. Per poi riporle ‒ sacramento-rito-unguento-particola ‒ in qualche tabernacolo. Che la fiamma vivida bruci i nostri sacrifici. Che la stanchezza venga purificata dalla perseveranza. Godere richiede fatica. Si gode solo nel patimento. Si ambisce alla tigre, al lupo, al leone. Si legge Borges, Leopardi, Hugo!Quindi cosa spinge il mondo a salvaguardare e, al tempo stesso, a perseguitare i custodi della parola? Una riverenza oramai persa, dimenticata; sebbene radicata in ogni cuore. Senza guardare all’altro, non si parla al futuro. Senza i grandi che hanno trovato se stessi, noi non saremo pronti a seguirne, originalmente, le orme.