Era il 1998, quando Giuseppe Tornatore approdava nelle sale con il suo primo film girato in lingua inglese, ossia La leggenda del pianista sull’oceano. Dalle vie della sua amata Bagheria di tempo ne è trascorso, così come tante sono le immagini che ci siamo lasciati alle spalle. E dopo un Baaria che ha lasciato tiepidi tanto la critica quanto il pubblico, Tornatore torna ad un cinema decisamente meno personale, ma non per questo avulso dalla poetica del regista siciliano.
La migliore offerta è un progetto di respiro palesemente internazionale, non soltanto per via di un cast di tutto rispetto, ma anche in considerazione di una storia pregna di un fascino e di risvolti privi di alcun vincolo territoriale o culturale. Vi basti pensare che l’unica città espressamente riconoscibile è Praga, in virtù di una sua precedente menzione più che altro.
Figura centrale di questa misteriosa vicenda a sfondo drammatico è Virgil Oldman (Geoffrey Rush), un affermato battitore d’aste dal gusto sopraffino. Esperto d’arte, lo schivo ed abitudinario Oldman coltiva una ossessiva predilezione per i ritratti, di cui custodisce gelosamente una meravigliosa e costosissima collezione. Ma la sua vita registra una svolta pressoché totale dopo aver “conosciuto” Claire (Sylvia Hoeks), affascinante e sfuggente tenutaria di una sfarzosa villa.
A luci nuovamente accese, mentre ancora scorrono i titoli di coda, si erge perentoriamente un giudizio su quest’ultimo film di Tornatore: La migliore offerta rappresenta un sempre più raro esempio di thriller che non vive solo ed esclusivamente in funzione del suo intreccio, e quindi dell’apice rivelatore. Non a caso, con un’apprezzabile proprietà di linguaggio, il cineasta originario della provincia di Palermo non ci spiattella in faccia il finale, giocando con una serie di sovrapposizioni temporali che lo lasciano elegantemente intendere.
Così come elegante è lo stile con cui viene messo in scena il tutto. A partire da quella prima, accattivante sequenza, che funziona in parallelo con l’ultima, decisiva carrellata all’indietro: il vecchio Oldman seduto a un tavolo, solo, spaesato e perso nei suoi terribili pensieri. C’è qui tutto il Tornatore che in tanti amano o hanno amato, quel narratore di storie che riesce con poche pennellate a conferire al suo dipinto un tocco inequivocabile.
Quest’ultima considerazione introduce una delle chiavi di lettura principali di questo film, che è la dicotomia falso/autentico, che per l’occasione assume a sua volta una duplice valenza. La prima, più immediata, attiene al mestiere del protagonista. Oldman è infatti un raffinato intenditore, quasi un visionario. Concentrandosi con una naturalezza disarmante sui piccoli dettagli, riesce a stabilire non solo l’autenticità di un quadro, bensì pure il suo valore in prospettiva. D’altronde in questo consiste il suo lavoro: valutare. Quadri, sculture, ricche magioni e via discorrendo; il suo è un occhio oltremodo allenato per carpire ciò che a chiunque altro sfugge. Della seconda facciamo cenno a breve, con discrezione.
È tuttavia evidente che Tornatore abbia lavorato parecchio sul personaggio di Rush, dietro cui si cela una fitta mole di complessi ingranaggi. Gli stessi che l’estroso protagonista raccoglie lungo il corso del film, appartenenti al modello di un automa che ricorda molto da vicino quello visto appena un anno fa nell’Hugo Cabret di Scorsese. Trama che quindi procede su più binari, convergenti tutti sul medesimo punto. Perché La migliore offerta cresce mediante rimandi, occultamenti, equivoci, tutti tesi a ricreare uno scenario il cui culmine narrativo è semplicemente una delle componenti messe in gioco.
Ma questa è anche, e forse soprattutto, una pellicola sulla fallacità dello sguardo, nonché sulla sua pretesa di far propria l’essenza delle cose. In questo vi è un evidente risvolto filosofico, licenza che il film si concede a più riprese senza nemmeno sforzarsi troppo a sottrarsene. Concetti come la simulazione e/o contraffazione dei sentimenti (”l’amore è falsificabile?“, chiede più o meno il giovane Robert), o altri come l’impossibilità di riprodurre pienamente un’opera altrui senza cedere alla tentazione di imprimere sulla copia un proprio, riconoscibile marchio di fabbrica, ci costringono a decifrare ogni passaggio con una certa cautela speculativa.
Un continuo gioco di luci e ombre, dove ogni cosa potrebbe non essere (o non è) quello che sembra. Tra chi si nasconde dietro a una parete, chi dietro a una maschera, chi dietro ai dipinti che tanto ama, ognuno dei personaggi, consapevole o meno, finisce con l’essere altro rispetto a ciò che dà a vedere. Il tutto filtrato attraverso due delle pratiche più antiche nella storia dell’uomo, ossia quella dell’Arte e dell’Amore, le cui istanze vengono totalmente addossate sull’impeccabile interpretazione di Rush.
Ma tale personaggio non è che un escamotage, uno dei tanti di cui Tornatore si serve per depistare, o comunque per rendere magistralmente meno agevole la percezione di quanto accade sullo schermo. Ecco perché, in tal senso, funzionali risultano anche ruoli come quello di Claire (Sylvia Hoeks), Robert (Jim Sturgess) e Billy (Donald Sutherland). Tutti rappresentano a loro modo, chi più chi meno, un seppur minuscolo ingranaggio di quell’automa che è apparentemente la verità, spesso e volentieri altra cosa rispetto alla realtà.
Poco prima degli ultimi venti minuti grossomodo, cioè quelli decisivi, il film rischia un lieve e fisiologico calo, dovuto al protrarsi di un contesto idilliaco che, a dire il vero, in una determinata fase comincia a risentire della durata. Questione di minuti, comunque; dopodiché Tornatore riesce a prendere nuovamente in mano le redini mettendo ingegnosamente ogni cosa al proprio posto.
La miglior offerta ci ricorda dunque certi quadri di Magritte, come La Trahison des images (quello della pipa sotto cui troviamo la scritta “Ceci n’est pas une pipe“, ‘Questa non è una pipa’), oppure la sua altrettanto celebre Décalcomanie. E se la prima delle due opere citate rispecchia gli eventi del film, la seconda potrebbe benissimo assurgere quale sintesi e fotografia di quel Virgil Oldman che riesce per la prima volta ad entrare in contatto con un’altra persona nonostante la “mediazione” di un muro che li separa entrambi.
Coinvolgente e dal tocco ricercato (inconfondibile Morricone), giace più di un tesoro sotto le aggraziate vesti de La migliore offerta. Un ritorno discreto ma non meno piacevole per Giuseppe Tornatore, che firma così uno dei suoi film migliori – “film d’autore per tutti“, così come il diretto interessato ha dichiarato alla vigilia. A patto però di osservarlo con gli stessi occhi del suo protagonista, che riesce a scorgere certe determinanti minuzie “occultate tra le pieghe di un drappeggio“.
La migliore offerta (Italia, 2012). Di Giuseppe Tornatore, con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson, Dermot Crowley, Liya Kebede, Maximilian Dirr, Miles Richardson, Katie McGovern, Gerry Shanahan, Sean Buchanan, Lynn Swanson, Kiruna Stamell, Brigitte Christensen, Anton Alexander, Sylvia De Fanti, Jay Natelle, Laurence Belgrave, Rajeev Badhan e Patricia Meglio. Nelle nostre sale da ieri, martedì 1 Gennaio