Io e Shila siamo sulla terrazza della casa dei genitori di Karan. Abbiamo vestiti leggeri, nonostante la notte fredda. Quando cala il sole il deserto non lascia scampo, l’escursione termica è la più forte che abbia mai sofferto. Sotto di noi si allarga la periferia di Jodhpur. L’orizzonte è frastagliato dalle foglie di quelle che immagino essere palme ma che probabilmente non lo sono. Dietro le fronde si alza un bagliore violetto. Alcuni cani abbaiano in lontananza. “Una volta era tutto deserto, non c’era niente” dice Karan alle nostre spalle. È risalito portando bottigliette d’acqua e whisky. “Avevano provato a fare un campo da golf, per i nuovi ricchi” ride. “Giocavano a golf nella polvere.”
Sono a Jodhpur da un paio di giorni. Da quando sono arrivata in India è difficile suddividere ordinatamente lo scorrere del tempo. Ogni giorno sembra una settimana, ogni giorno è un segno, non ha più un nome, ha appena un numero a identificarlo. Il sole sorge e cala, in quell’intervallo io parlo, penso, mi muovo. Ogni giorno di nuovo, ma non da capo. Ogni giorno parlo, penso, mi muovo con un’anima più antica. Siamo arrivati qui con un bus notturno da Ahmedabad. Ho dormito poco e male perché l’autista teneva l’aria condizionata al massimo. Fuori c’era solo il deserto, qualche casa, qualche camion fermo per la notte, gualdrappato come un elefante o un cavallo in un giorno di matrimonio. Le case avevano quell’aria falsamente abbandonata data dalla mancanza di tapparelle o di scuri alle finestre, da un’architettura fatta di strutture che non hanno bisogno di rivestimenti o protezioni. Un’aria simile alle case che costeggiano la pineta di Paestum. Ogni tanto l’autista frenava bruscamente, eppure sembrava ci fossimo solo noi ad attraversare quella parte dell’India tra il Gujarat e il Rajasthan. Forse un animale: un cane, una vacca, una famiglia di scimmie. Non mi mancava niente.
Interno della casa di un bramino a Jodhpur.
All’alba, quando siamo arrivati, un nugolo di tuk-tuk ci aspettava alla fermata degli autobus, che consisteva nello spartitraffico polveroso di uno stradone che organizza il traffico che entra ed esce dalla città. Gli autisti hanno iniziato a litigarsi le nostre valigie spostandole di qua e di là, tenendole sollevate sopra la testa mentre correvano, rubandosele dai sedili posteriori dei risciò urlando e saltando come un branco di animali impazziti, poi finalmente ci hanno accompagnati in città. Di fianco agli specchietti retrovisori cornicette che ospitavano le foto sbiadite dei grandi divi di Bollywood, stelline e cuori, titoli di musical come Tere Naam e serie televisive pachistane.
Jodhpur non ha una forma difficile da capire. Non è molto grande, ha dei punti di riferimento che valgono anche per chi non c’è mai stato, una parte vecchia e una parte nuova, separate in modo chiaro. Il nostro hotel è nella parte nuova. L’acqua puzza di fogna, i materassi sono appoggiati su tavole di legno, il bagno è più spazioso della camera e buio, il pavimento è rivestito da piast relle bianche e nere, a righe, che ricordano la scenografia di Nirvana. Ci si sta bene. Per gli indiani è un hotel di lusso. Fuori dalla finestra c’è un muro. Il caldo amplifica tutti gli odori.
Il proprietario ha due cani. Prima d’ora non avevo mai visto indiani con i cani a passeggio. I cani dovrebbero essere considerati impuri. Eppure qui è pieno di Labrador. Di sera gli mettono dei cappottini per proteggerli dall’umidità. I cani di Jodhpur sono diversi da quelli di Ahmedabad. Più grandi e paciosi i primi, smilzi e rognosi i secondi. Dalla quantità di cuccioli che si vedono tra le case, per strada, negli angoli delle scalinate, sembra che tutte le cagne abbiano appena partorito. Se ne vanno in giro con i capezzoli spompati che quasi toccano terra e a volte leccano le vacche sacre. Così, almeno nel mondo animale, le anime più pure e quelle più impure s’incontrano. Il cane più grande dell’hotel, quando non rincorre quello più piccolo, se ne sta seduto sul cornicione del balcone, come un gatto. In India tutto diventa comprensibile, non ci si stupisce di niente, si vive in uno stato di meraviglia così assoluto da diventare abitudine. Le contraddizioni non sembrano divari, ma magie: diventano naturali nel fluire della vita della città.
Un cane mesto nel centro di Ahmedabad.
Il padre di Karan, come regalo di benvenuto, gli ha fatto trovare a casa dei musicisti. Anche Shila, Karan e loro figlio, Kashi, sono appena arrivati in India, da Berlino. Karan trasforma ogni cosa che racconta in una favola. Quel mattino mi dice che si è svegliato sentendo una musica in lontananza che si avvicinava alle finestre di casa, un suono confuso che si è fatto via via più definito emancipandosi dalla distanza. Quella musica, che suscitava l’ammirazione di tutti i passanti, stava venendo proprio da lui. Così, alla sera, quell’uomo che suonava, vecchio conoscente di suo padre, è tornato accompagnato da altri musicisti di tambura e da un danzatore di walar.
C’è uno strano contegno tra gli ospiti, frutto di una gerarchia e di un pudore che non riesco ancora a intendere immediatamente, senz’altro legato a un sistema castale. L’atmosfera è così rarefatta che non ho il coraggio di chiedere niente, perché sembra proprio che tutto sia come deve essere. Quel “deve” però non sottintende un obiettivo soggettivo, egoista, è un deve assoluto. Non è una direzione, ma un filo a piombo cui sono appese le cose, le persone, i gesti indiani sotto questo cielo, con le stelle coperte dal fumo e il leggero odore del fuoco, come tante marionette di kathputli. Le cose, su questa terrazza, non potrebbero essere in nessun altro modo. È così che l’India vive nel presente, senza mai chiedersi cosa sarebbe diventata se le cose fossero andate diversamente. Ognuno ha il suo dharma. Quando si è nel presente si è nell’accettazione, non si è più alla ricerca ossessiva delle cose e delle occasioni, si sa che sta succedendo quello che dovrebbe succedere. Improvvisamente si ha il potere di trasformare in una possibilità sia una cosa negativa che una positiva, la realtà non si divide più in bello-brutto, buono-cattivo.
Preparazione dei fili colorati per gli aquiloni del Makar Sankranti.
Gli artisti iniziano lo spettacolo, e mentre Karan traduce a me e a Shila i testi delle canzoni, che parlano di donne dagli occhi neri, fiori e uomini innamorati e sembrano appoggiarsi tutte allo stesso basso di bordone, Kashi finge di leggere Les Aventures de Tintin, lo stesso volume che io ho dimenticato a Roma. Karan mi sfila dalle mani un bicchiere pieno di ghiaccio prima che possa portarlo alle labbra e questo piccolo gesto, che tradisce un’attenzione precisa, nonostante la festa, mi fa sentire al sicuro. Ora, oltre ai cani e ai musicisti si sente un fischio in lontananza. Qui i treni che attraversano le stazioni emettono due suoni diversi con due significati precisi. Uno è per i treni merci che passano senza fermarsi, l’altro invece avvisa che sta arrivando un treno passeggeri: si sente per tutta la città. Così chi aspetta qualcuno corre in stazione. La notte indiana è più grande della nostra.
Da quando sono arrivata, e ho fatto il primo passo fuori dalle vetrate dall’aeroporto, ho sentito quell’odore inconfondibile, che non a caso dà il titolo alle memorie di viaggio di Pasolini, quell’odore che sembra esalare da un corpo vivo, da un animale caldo, da un essere umano, l’odore dell’India, quello che molti potrebbero credere sia un espediente retorico e che invece è vero. È vero, esiste! Da quando sono arrivata e ho sentito quell’odore ho capito di essere tornata, di essere venuta a trovare qualcosa che avevo lasciato. Mentre atterravamo una donna indiana, imbarcata a Dubai, mi si è avvicinata per guardare fuori dal finestrino e sorridendo mi ha detto in inglese: “Ecco la mia India, benvenuta”. Forse è perché il mio non è un arrivo, ma un ritorno, che mi sento così diversa dalle altre persone che viaggiano con me. L’esotismo non mi commuove più, mi ricorda qualcosa che incontro di nuovo e che cerco di abitare. Non cerco di darmi risposte. Mi sento adulta e spietata, un po’ mi dispiace, ma credo di andarne fiera. Come Yogiraj, il ragazzo musulmano che si fa chiamare Yug (radice sanscrita di Yoga, unire, legare insieme), che frequenta una ragazza indù che non potrà sposare e che passando davanti a una cagna che non si rassegna alla morte del cucciolo, accorgendosi del mio turbamento, dice senza guardarmi: “È la vita”. Già. È la vita, e rientra in quella magia quotidiana che dilata lo stupore facendolo diventare normalità. Poco dopo, sulla stessa strada, una vacca sta partorendo. E forse è questa sensazione, lo stare nel presente, che m’impedisce di scattare fotografie. Non voglio trattenere niente, voglio farmi attraversare. È un bisogno che parte dal corpo prima che dalla mente. Non voglio mettermi in fila per intrappolare quello che sto vedendo, voglio guardare. Forse, quando tornerò indietro, mi pentirò di questa arroganza sottile, o forse no, in fondo non ci si può pentire di qualcosa che si sente necessario. E così, invece di mettere a fuoco, cammino sorridendo alla gente.
Un ragazzino getta del pane ai pesci del Padamsar Talab.
Da quando siamo arrivati non facciamo che sentirci addosso gli sguardi di tutti, ci osservano incuriositi, con un misto di sospetto e ammirazione. Il Gujarat non è una zona turistica e la gente non è abituata a vedere tanti occidentali. In pochi fuori dai campus universitari parlano inglese. Noi alziamo uno scudo d’imbarazzo, così come gli indiani portano su di sé un misto di orgoglio e vergogna. Hanno paura di essere disprezzati da noi, ma basta fargli un complimento perché siano contenti, un sorriso perché diventino dolci e premurosi. È pazzesco il potere della mimica in questo paese.
Ahmedabad è un posto strano, il Gujarat è meno affascinante del Rajasthan. Non si coltiva nessun vizio, i mendicanti sono poveri ma sobri e soprattutto sono pochi, nonostante sia inverno e molti siano scesi da Rajasthan in cerca di un clima più caldo. Non si beve, non si fuma, non si mangia carne. Quando Laura ed io compriamo un pacchetto di bidi gli ambulanti ci guardano stralunati, sogghignano, poi ci avvertono che sono molto forti, che non sono adatte a delle ragazze. Qui la gente risparmia per i matrimoni e l’università dei figli. Quando chiedo a Rohit di spiegarmi qual è la differenza tra il bindi rosso e quello ocra mi dice che lui di religione non si interessa. Ahmedabad sembra una città laica, non c’è la magia della giungla, né del deserto o della povertà più brutale, quella di Delhi ad esempio, le donne istruite si vestono all’occidentale. Eppure nel 2002 e nel 2008 ci sono stati scontri violenti tra musulmani e indù, con centinaia di morti e feriti. Ahmedabad è una città brutta e affascinante.
Jumma Masjid, la moschea più antica di Ahmedabad.
La prima volta che sono andata in India non ho letto niente, nemmeno la Lonely Planet. Non volevo credere di vedere qualcosa che non c’era, mi sono limitata a farmi fare quattro iniezioni sulle spalle con la tessera sanitaria portoghese di un mio amico cui non sono mai stata abbastanza grata. Stavolta niente vaccinazioni ma più letture, quelle che si sono accumulate nel corso di cinque anni. Pasolini, Manganelli, Gozzano, Moravia. A prescindere della qualità letteraria, questi libri sono soprattutto raccolte di opinioni e vanno lette come tali, senza la speranza di capire veramente qualcosa del subcontinente che non sia la descrizione di una moschea o di un forte moghul – e anche in quel caso con le opportune distanze, visto che a parte Gozzano, i nostri non è che avessero proprio studiato attentamente la loro meta. Le generalizzazioni che fa Moravia, costantemente schifato dalla povertà e terrorizzato dalla diversità indiana, sulla filosofia e sulle religioni sono impagabili. I racconti di Gozzano, che probabilmente non visitò altro che Mumbai e Ceylon, sono meravigliosi e forse quelli che più si avvicinano alla realtà indiana – divertente, visto che risalgono agli anni ’10 del ‘900 e sono per la maggior parte inventati. Pasolini più che parlare dell’India parla di sé e Manganelli fa un discorso molto preciso sulla compassione occidentale. In effetti è come se gli italiani si meravigliassero che anche i poveri possano essere generosi e allo stesso tempo li confinassero in una sorta di limbo fiabesco dove non esiste il male e dove la miseria non porta con sé la violenza. Come scrive Manganelli, l’India al turista sembra senza peccato, e invece è semplicemente senza pietà. Così vedendo i bambini in strada che chiedono le elemosina non immaginano che quei bambini potrebbero essere stati vittime di stupri. Questa insicurezza, questa crepa nella visione si fa strada quando, dopo una cena, qualcuno lascia un pacchetto di avanzi a un bambino incontrato per la strada. Appena il bambino corre via con il sacchetto di plastica ne spuntano altri che cercano di derubarlo e la nostra buona azione si trasforma in una rissa. I contenitori di alluminio cadono per terra, si rovesciano sull’asfalto, i bambini raccolgono i chicchi di riso e le roti sbocconcellate accovacciati per terra. Ci allontaniamo a passo veloce, senza dire una parola. Ripenso a quel bambino di cinque o sei anni che trovai fuori dal Lal Qil’ah, il Red Fort di Delhi, unico mendicante sperduto nella grande spianata di asfalto che circonda il prato verde all’inglese che circonda a sua volta il forte. Non avevo niente, gli srotolai davanti agli occhi il rullino della macchina fotografica. 36 foto, 400 ISO. Lo prese dubbioso e meravigliato. Quando risalii sul nostro bus privato, scostai la tendina e lo vidi sotto di me, col rullino in mano come una di quelle ghirlande di carta che fanno i bambini a carnevale. Guardava un po’ in su, verso di me, e un po’ in giro, per non perdersi l’uscita di un altro gruppo organizzato. Il rullino ormai irrimediabilmente sovraesposto, bruciato dalla luce bianca della capitale.