Abbiamo visto “ La pecora nera “ regia di Ascanio Celestini.
E’ difficile per noi “ sparare sul pianista “ e non lo facciamo certo in questo caso. Celestini e i suoi cosceneggiatori hanno senza dubbio un certo coraggio a trattare questo tipo di materiale e la regia è riuscita a trovare un certo stile. Però abbiamo visto un film dalle buone intenzioni ma che sembra – dopo uno spettacolo teatrale e un libro – giungerci stremato, come spremuto fino all’ultima goccia di sangue e forse anche per il troppo tempo trascorso. Ed anche quello che ha dichiarato il regista… “Non è un film di denuncia della barbarie del manicomio, ma piuttosto del manicomio come istituzione al pari di altre come il carcere e la scuola che sono cose altrettanto alienanti “ ci fa supporre una confusione nelle intenzioni finali. Non perché reputiamo le altre due istituzioni non alienanti, anzi, ma perché ci sono distinguo sostanziali che altrimenti creano confusione sul progetto. Usando una interpretazione ‘ anni sessanta ’ del linguaggio filmico potremmo anche dire che non siamo davanti ad un vero e proprio film bensì all’incontro di un testo scritto con un’impostazione di tipo teatrale e poi filmato in maniera sussiegosa e pedissequa al tema stesso, senza “ voli “ concreti nell’argomento follia o nella sventura di esseri finiti in lager senza alcuna colpa; ed anche la costante voce in fuori campo del protagonista rende poco cinematografica la storia. A quanto pare il “ progetto generale “ è partito dalla sintesi che avrebbe fatto lo stesso “ sventurato “ che ha trascorso 35 anni in una struttura chiusa chiamata un tempo manicomio: Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex-voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo”. Da queste parole ‘ poetiche ‘ di effetto teatrale è partita l’idea di Cinema. Ma per noi il Cinema è altra cosa, ha altre dinamiche che sostanzialmente esulano dalla letterarietà e dalla teatralità. Le riserve ulteriori che abbiamo verso questo tipo di cinema sono varie, ne citiamo almeno due: trattare argomenti di tale importanza ( la società chiusa… la diversità e l’intolleranza portata a segregazione… la non democrazia di anni che ci hanno fatto credere in assoluto belli… Il family life…) senza avere nemmeno un briciolo di analisi politica, non diciamo ideologica, ma almeno civile, rende evanescente l’orrore, superficializza il tutto; seconda riserva, ci sarebbe piaciuto sapere almeno qualcosa degli altri esseri chiusi in un luogo come il manicomio e non solo vedere delle ombre stagliate sul fondo.
Tra presente e flashback nel passato, si racconta delle sventure esistenziali di Nicola ( lo stesso Celestini ). E’ stato un bambino negli anni Sessanta, uno studente ai tempi di Don Milani e la scuola di Barbiana ( quindi dovrebbe avere quasi cinquantanni ? ), ha una madre in manicomio che forse muore, un padre inesistente, due zii che è meglio perderli che trovarli ( hanno ucciso una prostituta ? ) e una nonna buona ma troppo semplice. Va male a scuola in una scuola che va male e finisce, per volontà degli zii ( temono qualcosa ? ) in un manicomio. Sono gli anni Settanta ma della liberazione di Basaglia dei manicomi non c’è alcuna traccia. Da lì non uscirà più, forse anche per sua volontà. Da adulto trascorre le sue giornate facendo la spesa al supermercato ( luogo alienato come un manicomio ) con una suora che prega e paga il conto e chiacchierando con un altro degente che conta le puzze della suora e sogna di riviste per uomini senza parole. Al supermercato lavora Marinella, il suo unico grande amore infantile, che offre caffè in cialde a clienti che potrebbero comprare la macchinetta e che sono tristi e inesistenti come chi è chiuso oltre le mura del manicomio. Lui parla un po’ con lei e sembrano intendersi ma lui fraintende, e come non potrebbe nella sua solitudine; Nicola è un “povero scemo” che crede nell’ordine perchè ha una mente ‘disordinata’crede nei santi ma non in dio, che distribuisce pasticche e torna sempre indietro al novantanovesimo cancello perché è stanco, perché il mondo fuori è come dentro, soltanto più ordinato.
Un buon cast d’attori, tutti bravi ( forse l’unico non del tutto credibile, pour le physique du rôle è proprio Ascanio Celestini ), da segnalare una bella fotografia.