Abbiamo visto La pelle che abito diretto da Pedro Almodovar.
Mai come questa volta i critici italiani sono unanimi nello stroncare un film di Almodovar; una trentina d’anni fa, qualcuno aveva già ironizzato su film ‘estremi’ e originali come Labirinto di passioni (1982), L’indiscreto fascino del peccato (1983), Cosa ho fatto per meritare questo? (1984). Ma Don Pedro poi aveva realizzato un film “da Oscar” come Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1985) e tutto era rientrato: era diventato uno dei grandi registi europei. Fino all’Oscar, meritatissimo, con Tutto su mia madre e successivamente con altri due potenti film come Parla con lei (2001) e, Gli abbracci spezzati (2009). In una nostra recensione, avevamo scritto “Il ‘tocco’ alla Almodovar” scomodando un maestro molto differente come Lubitsch. Il Cinema di Almodovar, un misto ben amalgamato di realismo, surrealismo e grottesco pronto a evolversi in un melodramma a volte a tinte nere. Oggi, evidentemente i critici italiani ancora basiti e estasiati da film come Habemus Papam o da qualche altro flebile film italiano si sono permessi di definire La pelle che abito una bufala (non citiamo nemmeno la fonte) oppure il bravo Merenghetti ha scritto “Non fosse di Almodovar ma di un esordiente qualunque, si sarebbe tentati di liquidarlo in due parole…” (ma questo si potrebbe scrivere anche di qualche film di Wenders o di Allen) e un ‘nuovo’ critico scrive pomposamente “Se ogni tanto dormiva il grande Omero, è comprensibile che anche un genio come Pedro Almodovar si conceda un riposo”. La critica estera ha scritto in modo differente, “Più che un film da amare è un film da consigliare agli amici “oppure”. Posso solo dire che sono rimasto attaccato alla sedia dall’inizio alla fine”. Sicuramente La pelle che abito è un film fuori dal comune, ma anche in parte non riuscito, con almeno un passaggio emotivo importante poco congruo se non contraddittorio. Ma è un film visivamente molto maturo, poco convenzionale, da cinefilo monomaniacale e con dei rimandi estetici con i film di Cronenberg, e dei meno conosciuti Franju e Painlevé. E con un colpo di scena centrale che è la forza del film, ma anche una contraddizione psicologica, almeno secondo noi (si può rendere l’essere più odiato una donna da amare?). Almodovar sposta sempre in avanti o da un’altra parte la storia del film, stupendo lo spettatore e a volte anche ‘scioccandolo’.
Questa volta la storia non si può raccontare, ma solo accennarla attraverso i protagonisti, si sviluppa tra futuro, presente e passato: c’è un ricco chirurgo plastico (Robert Ledgard – Antonio Banderas) dalla lucida follia, c’è un ‘fratello’ ladro in tutti i sensi, una madre-domestica (Marisa Paredes) che accudisce Robert nella sua follia, una moglie morta bruciata in un incidente stradale, una figlia disturbata che si suiciderà e che provocherà la vendetta del padre nei confronti di un giovane, Vicente, (Jan Cornet) che ha fatto regredire la ragazza. E poi Vera, (Elena Anaya) la ragazza prigioniera nel castello di Robert e nel corpo di un‘altra. Insomma ritornano tutti i “temi” del cinema di Almodovar, dal rapporto assoluto nell’amore (c’è il Banderas che ci ricorda il protagonista di “Atame”, vent’anni dopo), c’è il rapporto complice madre-figlio, c’è il feticismo, il discorso sul corpo e le sue trasformazioni, sul corpo nell’Occidente, fino all’ironia sul sesso. Il tutto però è sviluppato narrativamente in modo troppo pieno e a volte contraddittorio. Banderas risulta invecchiato, molle e senza sfumature recitative, quasi un elemento estraneo all’interno di un cast bravo e convincente su cui risaltano in particolare la bravissima Marisa Paredes e Elena Anaya, attrice emergente spagnola.