Abbiamo visto “ La ricostruzione “ regia di Juan Taratuto.
Quasi del tutto sconosciuto in Italia, Juan Taratuto è un regista quarantenne che viene dalla pubblicità e i cui commerciali hanno vinto premi al Festival della pubblicità a Cannes e dalla televisione. Ma è anche un regista di cinema indipendente argentino, il suo primo lungometraggio ( No sos vos, soy yo ) ha riscosso nel 2003 un buon successo nel suo Paese ed anche in Spagna. Ha diretto anche altre due pellicole mai giunte in Italia Quién dice que es fàcil ( 2006 ) e Un novio para mi mujer ( 2008 ). In tutti i suoi film c’è al centro della sua ricerca l’uomo e la sua solitudine, la sofferenza esistenziale e le difficoltà di rapportarsi col mondo. Ne La Ricostruzione la sua ricerca diventa più rigida, più afasica e anche un po’ antipatica; verrebbe voglia di dirgli che un uomo annichilito dalla sofferenza ( come in questo caso ) non deve per forza non rispondere a chi gli si rivolge con gentilezza, vivere in un tugurio e lasciarsi andare nel modo più suddolo possibile. E giungere al punto di soffrire e sputare sangue piuttosto che andare da un dentista. Ed anche la location, la Patagonia, il luogo definito il mondo alla fine del mondo, ultima frontiera, luogo suggestivo e affascinante non può ridursi a ultima landa insignificante e senza personalità. E quando segnaliamo questo non è perché non conosciamo la narrativa di Sepulveda e di Colloane o il Cinema duro e asfittico di Pablo Larrain o quello di Solanas, di Aristaran o di Sorin fino a citare l’italiano Bechis con il suo Alambrado ( 1991 ), ma perché non si può narrare uno degli ultimi non-luoghi e l’ultima città del sud del mondo ( Usuhaia ) in un modo così distratto e superficiale. Insomma sembra quasi che dalla sua esperienza di pubblicitario non abbia preso alcuna lezione e nel momento in cui decide di fare Cinema mostra tutti i limiti di un regista ancora poco esperto, quasi come fosse un giovane alla sua prima opera. Come evidenti errori sono far vedere un uomo gravemente malato di cuore che corre, mangia abbondantemente asado, beve vino e va a pesca nel gelo dell’inverno australe, oppure quando un estraneo entra in un liceo senza controlli e fa uscire due ragazze dalla palestra. Insomma un film con delle buone intenzioni anche se non particolarmente originale e con alcuni risvolti drammatici piuttosto parchi. Si può dire che la parte introduttiva è quella più ostica e ostile allo spettatore, mentre la parte centrale e finale trova un suo respiro naturale e credibile.
Eduardo è un uomo che ha superato la cinquantina, dall’aspetto poco curato, scontroso con tutti e completamente solitario. Insomma una via di mezzo tra il disadattato e l’emarginato. Ha avuto una moglie mentre il figlio ormai adulto vive a Buenos Aires ma non si sentono da anni; i colleghi di lavoro lo sopportano a fatica perché non è mai ricettivo né minimamente disponibile. Per fortuna sua lavora come controllore di pozzi da estrazione e quindi può starsene spesso da solo a girare in auto tra un pozzo e un altro. Ha dei momenti di ira violenta che però non trascendono in qualcosa di più pericoloso. Lo sapremo solo verso la fine del film del perché di questo suo modo di essere, anni prima ha subito la perdita di una persona amata e questo dolore si è trasformato in senso di colpa e di inadeguatezza; per questo si è sentito indegno, svuotato, fino a perdere qualsiasi rapporto con il mondo. In questo vuoto esistenziale gli giunge una telefonata dell’unico amico che gli resta, un ex collega Mario. Senza capire bene la richiesta, parte e lo raggiunge ad Usuhaia per qualche giorno. Solo quando è lì da un paio di giorni comprende che l’amico dev’essere operato al cuore e ha bisogno di sostegno per la sua amata famiglia composta da una moglie piuttosto imbranata e da due figlie adolescenti. La morte dell’amico dopo l’operazione lo costringe a restare altri giorni, a occuparsi del negozio di Mario e a vivere, anche se resta ai margini, la vita di famiglia che si sta sgretolando per il dolore. E questo tornare alla vita normale anche se dolorosa riesce a risvegliare Eduardo dal suo torpore, a dargli un po’ di energia e finalmente a parlare per la prima volta del suo dolore muto. Questi piccoli spostamenti esistenziali gli fanno cambiare direzione nella vita, fino al punto di avere il coraggio di abbracciare le tre donne e chiamare suo figlio a Baires.
Juan Taratuto realizza un film minimalista, coraggioso per i nostri tempi, sicuramente autorale, probabilmente ci vuole raccontare una storia alla fine del mondo, e ci dice che la vita prende ” strade ” imprevedibili. Ma quello che manca a Taratuto è la capacità di scandagliare la psiche umana, di cercare nuove strade narrative, il suo tocco è così leggero da risultare afasico e poco affabulatorio. Probabilmente il fatto che venga dalla televisione lo porta ad una scrittura e ad una regia prevedibili se non standardizzati e così facendo mostra un approccio appesantito, senza innovazioni o colpi d’ala.