Fra i registi contemporanei, forse nessuno riesce a mettere in difficoltà il recensore quanto Woody Allen. Da una parte per via della sua inarrestabile prolificità (un film all’anno da quasi cinquant’anni, con impressionante regolarità); dall’altro, l’assoluta trasparenza di ciascun lavoro e la sostanziale “prevedibilità” delle scelte tematiche e stilistiche (e quante volte abbiamo letto o sentito dire che “Allen fa sempre lo stesso film”?). Un unicum di cui spesso è difficile rendere conto senza rifugiarsi nello schematismo “sì/no/ni”.

Prendiamo questo La ruota delle meraviglie. Uscendo dal cinema con alcuni amici, ci scambiamo pareri a caldo, ma il copione è già scritto: uno dice che il film è bolso, un altro replica che non ha senso definirlo così, un altro ancora che è tutto sommato meglio del precedente. Dopodiché si passa ai confronti: c’è chi confonde i titoli (Magic in the Moonlight è venuto prima o dopo di Blue Jasmine?) e chi ammette sottovoce di averne perso qualcuno per strada (qualcuno si ricorda di Sogni e delitti?). In ultimo, si intona la solita commemorazione al personaggio Allen e al suo cinema che fu. Commemorazione inevitabilmente provvisoria, destinata com’è a durare soltanto fino al prossimo film. Vien da pensare che recarsi al cinema per un film di Allen ha più a che vedere con l’antropologia spettatoriale che con la cinefilia in senso stretto. Bisognerebbe anzi dedicarsi allo studio dei meccanismi psicologici che guidano lo spettatore alleniano, magari cominciando da quell’inconfondibile «senso di cordialità e calore» che emana dal font “Windsor” dei titoli di testa (una questione che gira in rete da qualche anno e che è stata recentemente ripresa in un articolo molto divertente di Piero Trellini).

La ruota delle meraviglie non è esattamente un’eccezione alla regola. La trama, ambientata a Coney Island e dintorni negli anni Cinquanta, intreccia le vicende di quattro personaggi: Ginny (Kate Winslet), cameriera in un ristorante di pesce con un passato da attrice; Humpty (Jim Belushi), suo secondo marito, giostraio nonché ex alcolista; Carolina (Juno Temple), sua figlia di primo letto, già “pupa del gangster”, che ritorna inaspettata da papà con la coda fra le gambe e due malavitosi alle calcagna; infine Mickey (Justin Timberlake), narratore non esattamente attendibile della storia, bagnino e aspirante drammaturgo, che seduce entrambe le donne, provocando la pericolosa gelosia dell’una e condannando involontariamente l’altra a una brutta fine.

 

Justin Timberlake, Kate Winslet e Juno Temple.

Già da questo stringatissimo resoconto si respira una certa aria di famiglia. La Ginny di Kate Winslet, per esempio, col suo carico di ambizioni frustrate e i suoi rovesci esistenziali, è una sorta di versione proletaria della Jasmine di Cate Blanchett, incluse le strizzate d’occhio a Tennessee Williams (e forse anche al Wilder di Viale del tramonto); mentre il narratore interno che si rivolge direttamente allo spettatore, è una figura ricorrente nel cinema di Allen fin dai tempi di Amore e guerra: correva l’anno 1975.

Anche i temi squadernati dal film sono i soliti: il conflitto fra realtà e illusione, che nutre buona parte della produzione alleniana, a cominciare da un capolavoro come La Rosa Purpurea del Cairo (1985); e la questione della responsabilità morale e del senso di colpa, sulla quale il Nostro è tornato con una consuetudine quasi ossessiva negli ultimi anni, da Match Point a Irrational Man. Il tutto, naturalmente, esposto alla maniera dell’ultimo Allen, cioè riducendo i sottintesi al minimo e dichiarando il tutto a voce spiegata, con didascalica insistenza; di contro, si nota un sempre più frequente (e preoccupante) disinteresse nei confronti della tenuta del racconto, con passaggi rabberciati alla sans façon e svolte narrative risolte in modo spesso meccanico o sciatto.

Insomma, se La ruota delle meraviglie ha delle qualità, vanno cercate altrove. Per esempio, nell’inedita piega cinéphile dell’estetica alleniana. Per la prima volta, nelle sue sempre più numerose incursioni nel passato (ben tre negli ultimi sette film, volendo escludere il “viaggio nel tempo” di Midnight in Paris), il Nostro affronta gli anni Cinquanta. E lo fa affidando le luci a Vittorio Storaro, che inventa per il film una tavolozza di colori squillanti alla Norman Rockwell. Una scelta che ha fatto storcere il naso a molti, ma che a mio avviso risulta pienamente funzionale. Difatti, se in passato – e soprattutto per i suoi film (melo)drammatici – Allen aveva guardato perlopiù Oltreoceano, al bianco e nero di Fellini o ai colori lividi di Bergman, stavolta decide di fare un tuffo in pieno melò hollywoodiano, ispirandosi a un maestro del genere come Douglas Sirk. Il quale, come anche i meno cinefili sanno, si serviva dei colori sovraccarichi, giulebbosi e volutamente kitsch del Technicolor per dare quella patina d’irrealtà ai conflitti (sociali e di genere) che nell’America di Eisenhower non potevano essere trattati apertamente.

 

Nella stessa direzione sembra andare la scelta di Coney Island come sfondo della vicenda, “rivitalizzata” per l’occasione con una robusta dose (insolita per Allen) di effetti digitali. Anche qui è in gioco la memoria del cinema, soprattutto di quello muto: Buster Keaton & Fatty Arbuckle (Coney Island, 1917), Clara Bow (It, 1927), Harold Lloyd (Speedy, 1928); e c’è anche la memoria dello stesso Allen, a cominciare dall’indimenticabile casetta sotto le montagne russe di Io e Annie. Ma la Coney Island degli anni Cinquanta è soprattutto l’epitome ormai in declino del divertimento di massa, o, per dirla con Rem Koolhaas, «il luogo di riposo definitivo per frammenti futuristici, cianfrusaglie meccaniche e spazzatura tecnologica». Una discarica di sogni, in altre parole. Più che le facili allegorie (vedi la giostra e la ruota delle meraviglie), è proprio l’aria di putrefazione emanata dai baracconi in via di smantellamento a fornire uno degli aspetti più suggestivi del film: il contrasto fra i sogni dei personaggi e il destino di decadenza e morte che attende tutti quanti.

Paese dei sogni inevitabilmente destinato a un fin troppo brusco risveglio (come ricorda Koolhaas, “Dreamland” era appunto il nome del più vasto parco di divertimento dell’isola, ridotto in cenere da un incendio già nel 1911), Coney Island è però in grado di produrre da sé i propri “anticorpi”. Alla memoria cinefila del luogo è legato infatti Il piccolo fuggitivo (1953), caposaldo del cinema indipendente “made in NY” e incentrato sui “quattrocento colpi” domenicali di un ragazzino sperduto fra le attrazioni del parco. Non so se Allen l’abbia visto, ma sembra venire proprio da quel film l’invenzione più originale de La ruota delle meraviglie: Richie (Jack Gore), figlio che Ginny ha avuto dal primo marito e che più di tutti sembra vittima delle frustrazioni degli adulti intorno a lui. Sembra. Perché mentre gli adulti si abbandonano ai propri sogni impossibili, lui si accontenta delle fantasie a buon mercato di Hollywood (lo vediamo brigare sui centesimi per poter correre al cinema). E se nel film tutti cercano di costruire qualcosa di nuovo e duraturo, Richie assembla complesse “sculture” con pezzi di manichini e oggetti trovati qua e là (altri rifiuti, altri rottami…) soltanto per il gusto di dar loro fuoco. Un’immagine surrealista, quasi magrittiana.

«Spesso mi domando cosa ci veda quel ragazzino, dentro quelle fiamme», si domanda sua madre. La sceneggiatura non spiega nulla: Richie è una figura sfuggita di mano ad Allen (per fortuna!), una scheggia impazzita nella quale chiunque è libero di vedere quel che preferisce. Un piccolo angelo sterminatore del mondo ipocrita degli adulti? L’annuncio del caos imminente? L’incarnazione stessa di Coney Island, della sua insopprimibile vocazione alla catastrofe? Per quanto mi riguarda, mi piace pensarlo come un alter-ego in miniatura dl meticoloso Woody, che da mezzo secolo in qua, con pazienza mette insieme i cocci sparpagliati del nostro mondo e, una volta all’anno, brucia tutto nella luce abbagliante del grande schermo.

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