Anche nelle Lettere da Muzot, nel precipizio degli ultimi anni, Rainer Maria Rilke ricorda “la scoperta della Russia, per me risolutiva”, come scrive a Hermann Pongs, il 21 ottobre del 1924 (ora in: Rainer Maria Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile, De Piante 2022, a cura di Franco Rella). Può sorprendere: Rilke era stato in Russia da ragazzo, nel 1899, la prima volta, dal 25 aprile al 18 giugno. Gli aveva fatto da guida – e dunque da musa – Lou Andreas-Salomé, nata a San Pietroburgo, già discepola e amica di Nietzsche. Il viaggio sbalordì Rilke: a Mosca aveva conosciuto Leonid Pasternak, il grande artista (e padre di Boris), e Paul Trubeckoj; aveva fatto visita a Tolstoj. “È difficile esprimere quanta novità ci sia in questo paese, quanto futuro”, scrive, il 19 maggio del 1899, da Pietroburgo, al poeta Hugo Zalus. Certo, Rilke leggeva Tolstoj, Dostoevskij – “mi ha completamente incantato con le sue Notti bianche” – ma è, piuttosto, l’etica del “pellegrino russo”, vagabondo nella gola dell’assoluto, senza altro bagaglio che la Bibbia, un tozzo di pane, una fede famelica ad affascinarlo. La Russia è il corpo sconvolto dell’angelo, il sacro ad ogni angolo, l’ustione permanente: “Nella sua immaginazione di poeta la Russia prendeva i tratti del paese dei sogni fatidici, dei principi patriarcali, opposto all’occidente retto dal commercio”, ricorda la scrittrice russa Sof’ja Nikolaevna Šil’, che tratteggia un quadro dei due, Lou e Rainer, per le vie russe, “Questa coppia errava per Mosca, per l’Arbat, per vicoli e vicoletti; andavano per mano, come bambini, e suscitavano sguardi curiosi e sorrisi… Cercavano in ogni luogo il volto autentico della Russia. Quanto più tutto era lontano dalla letteratura e dall’Europa, tanto meglio”.
L’anno dopo, Rilke e Lou rinnovano il patto con la Russia. Partono ai primi di maggio, vi restano fino a fine agosto. Per prima cosa, omaggiano – ancora – Tolstoj, a Jasnaja Poljana; poi entrano in Ucraina, soggiornano per due settimane a Kiev. Secondo il pittore Heirich Vogeler “le cattedrali sotterranee di Kiev avevano particolarmente rafforzato in Rilke l’inclinazione per il mistico”. Lou e Rainer viaggiano lungo il Dnepr, si fermano alcuni giorni a Poltava, passano per Char’kov e Voronež, risalgono il Volga, dormono “in una piccola izba, come contadini tra contadini…. il tempo era bello e questa vita così primitiva era piena di fascino” (così Rilke alla madre). Per un paio di settimane visitano Mosca.
In Russia, Rilke trova una patria. “Per me diventa sempre più chiaro che la Russia è la mia patria – tutto il resto è paese straniero”, scrive nel 1902; a Leonid Pasternak confessa il desiderio di trasferirsi “in un posticino, a Mosca, con uno stipendio modesto”; “Alle grandi e misteriose garanzie su cui si regge la mia vita appartiene anche il fatto che la Russia è la mia patria”, ribadisce, nel 1903. Un pensiero non velleitario, ma cardinale, che ripete, con più forza, anni dopo, nel 1920: “Che cosa devo alla Russia? È lei che ha fatto di me quello che sono divenuto, è da lei che sono interiormente uscito, tutte le mie più profonde radici sono là”.
Come sempre, Rilke immagina una vita, una relazione, un futuro: per poi realizzarla – intrisa di una rabbiosa malinconia, sotto minaccia dell’impossibile – nell’opera. La Russia, patria immaginata, esplode nel Libro di immagini, entra in poesie nebulose, che cristallizzano la tenebra: in Corsa notturna. San Pietroburgo – raccolta nelle “Neue Gedichte” – appare una “notte insonne/ che non ha cielo e non ha terra” – memoria delle notti bianche di ‘Dost’ – e “figure di pietra dai contorni evanescenti”; infine: “questa città cessò/ di esistere”. Nella furia creativa di Muzot, un secolo fa, nel febbraio del 1922, ritorna, a lampi, la Russia, cicatrice tra la giovinezza e l’estrema grazia di Rilke: nella prima parte dei Sonetti a Orfeo:
“Ma che consacro a te, o Signore, dimmi,
tu che addestri l’orecchio alle creature? –
Il mio ricordo di un giorno di primavera,
nella sua sera, in Russia –, un cavallo…”
(XX, la traduzione è di Franco Rella)
Sempre, la Russia è vista di notte, spesso a cavallo (Carlo XII di Svezia cavalca la Ucraina, in “Das Buch der Bilder”, 1902), forse memore di Gogol’: la Russia si può amare soltanto in fuga, in corsa, disperatamente.
Il viaggio in Russia di Rilke è ricordato, a chiazze, per manate verbali, da Boris Pasternak nei romanzi autobiografici. “Al mio ritorno a Mosca, entrò nella mia vita un altro grande lirico del secolo, allora appena noto e oggi riconosciuto in tutto il mondo, il poeta tedesco Rainer Maria Rilke. Nel 1900 si era recato a Jasnaia Poljana da Tolstoj, aveva fatto conoscenza e scambiato lettere con mio padre, e aveva trascorso un’estate vicino a Klin, a Zaviovo, dal poeta contadino Drožžin. In quegli anni lontani donò a mio padre le sue prime raccolte con dediche calorose”, scrive Pasternak nel 1957. Anni prima, nel 1930, il poeta apre Il salvacondotto con una scena analoga, ma alterata dagli specchi: “In una calda mattina estiva del 1900 un rapido è in partenza dalla stazione di Kursk. Poco prima che si muova, un tale avvolto in una nera mantellina tirolese si avvicina al nostro finestrino. È con lui una donna alta. Forse sua madre o forse una sorella maggiore”. Pasternak non nomina Rilke, alla cui “memoria” è dedicato Il salvacondotto, è sinuoso – proprietà nobile del seduttore – nell’accennare all’età di Lou, chiude lo sketch con un tono potente, ambiguo e lirico, ineluttabile – “Nel frattempo, la curva ci afferra e, girando lentamente come una pagina appena letta, la stazione scompare. Il volto e il fatto vengono cancellati. Forse, per sempre” –, così tipico del primo Pasternak.
Che proprio nel 1926, morirà a fine anno, Rilke intrattenga un epistolario con i due grandi poeti russi, Marina Cvetaeva e Boris Pasternak, pare l’estremismo della patria, una paternità. “Amava la Russia come io la Germania, con tutta l’estraneità del sangue e la libera passione dello spirito”, scrive la Cvetaeva (i rapporti tra i tre e il legame tra Rilke e la Russia sono celebrati in un libro di rara bellezza, a cura di Serena Vitale: Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, 1980). Il 14 marzo del 1926 Rilke scrive a Leonid Pasternak: tra l’altro, accenna alle “poesie molto notevoli di Boris Pasternak”, lette sull’“ottima rivista parigina Commerce, edita dal grande poeta Paul Valéry”. Qualche giorno dopo, papà Leonid scrive al figlio, “Ti darò una bella notizia: ho appena ricevuto da Rilke una lettera molto gradita e preziosa, soprattutto per te, Borja… di te, Borja, egli scrive con entusiasmo”. Il commento della Vitale è radioso: “Boris Pasternak fu colpito come un fulmine da queste parole. Nel periodo di profonda insoddisfazione e ansia creativa che stava attraversando, nel contesto della sua difficile e incerta vita moscovita, la notizia che Rilke era vivo e sapeva della sua esistenza suonava come la voce del destino stesso”. Volle tenere sempre con sé quel biglietto, un battesimo; morì nel 1960, con la lettera di Rilke nel portafogli – Rilke fu sepolto, idealmente, con Pasternak, in Russia. Si erano visti, per l’unica volta, cinquant’anni prima – Pasternak aveva dieci anni; ma si sa, per i poeti, che scombinano le reincarnazioni, la storia è un tiro di dadi. Un tempo, veniva tatuato con segni di bestie il corpo dei defunti.