Che cosa può insegnare la psicoanalisi alla politica? In che cosa il pensiero di Lacan può contribuire alla definizione di una pratica di democrazia radicale? Sono queste le domande alle quali il nuovo libro di Bruno Moroncini (Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014) dedicato a Lacan tenta di dare risposta. E lo fa sottraendo il filosofo francese alla vulgata che lo ha considerato un liberale moderato in politica, in fondo, per quanto illuminato, un conservatore.
Il libro è in effetti una raccolta di quattro saggi di cui solo il primo inedito, i quali, in maniera a volte circolare e con apparenti digressioni, ritornano sulle stesse domande, cercando di mostrare come la psicoanalisi lacaniana possa dare un contributo, proprio in quanto pratica analitica, ad una politica radicale capace di essere emancipativa senza essere illusoriamente “progressista”. Due sono a mio avviso i punti di snodo della proposta interpretativa di Moroncini: l’atto analitico e il sintomo. Attraverso questi problemi l’autore discute le posizioni di Badiou e di Žižek innanzitutto, ma risponde, anche se un po’ tra le righe (e tra le note), anche ad alcune tesi sostenute negli ultimi anni in Italia da Massimo Recalcati.
Il primo saggio del libro è un’ampia discussione dell’interpretazione e delle critiche che Badiou ha rivolto a Lacan, in particolare ne Le Séminaire del 1994-95, dedicato all’anti-filosofia di quest’ultimo. Secondo Badiou, Lacan non è stato in grado di pensare il ruolo dell’evento, inteso come quell’elemento soprannumerario che irrompe nella situazione e che in fin dei conti produce il soggetto rivoluzionario. Lacan resta fermo al principio secondo il quale il soggetto è il prodotto della verità dell’inconscio, quindi c’è sempre, senza dipendere dall’evento; c’è sempre, anche se non là dove si pensa, perché c’è sempre la verità (inconscia) di cui è l’effetto. Ma se questo è vero, allora non è possibile la “politica” se questa ha il suo movimento inaugurale nell’evento soprannumerario. Questa è la grave lacuna che Badiou riscontra in Lacan, che in tal modo viene confinato in qualche modo nella dimensione dell’impolitica.
Tuttavia, in Badiou, il soggetto rivoluzionario, marxianamente prodotto dalla situazione, deve, da un lato, in qualche modo (aporeticamente) preesistere alla situazione, dall’altro deve assumere su di sé la responsabilità di rilanciare l’evento “dandogli durata e consistenza” (p. 37). Secondo Badiou, il soggetto rivoluzionario è quell’istanza “che forza la situazione ad andare al di là di se stessa” (ivi). Ma in tal modo è come se, prodotto dell’insorgenza dell’evento, il soggetto rivoluzionario dovesse assumere su di sé “anche” un compito diverso (e forse opposto) da quello della politica, vale a dire quello del governo, istanza necessariamente implicita nello sforzo di trasformare l’evento rivoluzionario in società comunista.
Ora è proprio rispetto alla eterogeneità tra “politica” e “governo” – se interpretiamo bene la proposta di Moroncini – che, invece, Lacan potrebbe esserci utile. È qui che l’atto analitico trova la sua importanza. Se l’atto analitico, nel suo senso autentico e radicale, è la destituzione di qualunque sapere e, quindi, di qualsiasi soggetto supposto sapere, compreso l’analista, ciò significa che esso “pone il soggetto davanti ad un bivio, lo costringe ad un aut-aut, o continuare a ingannarsi e credersi un soggetto del sapere o destituirsi come soggetto del sapere e accedere a quella verità incarnata nell’oggetto a come oggetto causa del suo essere desiderante” (p. 55). Per tale ragione, Moroncini si domanda se l’atto analitico in quanto tale non sia anche un atto politico o almeno un modello per la politica. Ovviamente modello per una politica concepita come destituzione e distruzione del legame sociale, ogni qual volta questo si opponga al desiderio. Il modello dell’atto analitico si rivelerebbe utile ad una politica dell’insurrezione e dello scioglimento: “si insorge contro il legame sociale, si insorge per scioglierlo, per disincollarsi, per riaffermare la singolarità del desiderio contro le morali conformiste, i comandi superegoici. Contro il godimento coatto e il desiderio raggelato” (pp. 66-67). Che cos’è in fondo la democrazia se non quella forma di governo in perenne auto-scioglimento e in perenne auto-decostruzione, si domanda Moroncini?
Come dicevo, accanto allo snodo teorico dell’atto analitico, l’altra (ben più complessa) questione intorno alla quale ruota la proposta di Moroncini è quella del sintomo e delle sue relazioni da un lato con l’angoscia, dall’altro con gli oggetti a.
Anzi è proprio da questi ultimi che è necessario prendere le mosse. Perché è intorno allo statuto dell’oggetto a che verte l’ultima teorizzazione di Lacan, vale a dire quella teorizzazione che da un lato cerca di rispondere al problema delle difficoltà incontrate dalla psicoanalisi a curare le nuove forme di disagio e i suoi nuovi sintomi, dall’altro è quello strumento attraverso il quale lo psicoanalista francese cerca di confrontarsi con quello che lui stesso ha chiamato “discorso del capitalista”. Perché è qui che ruota la questione, psicoanalitica e psico-politica se si vuole. Non è semplice riepilogare il complesso ragionamento messo in campo da Moroncini su tale punto cruciale. Tuttavia, ritengo che la sua proposta possa essere schematicamente riassunta nella seguente dicotomia psico-politica: o si punta decisamente sul sintomo in vista di una politica emancipativa oppure, per arginare l’angoscia, bisogna percorrere, conservativamente e reazionariamente, la strada dell’identificazione con il capo, o meglio con il corpo del capo.
Più il capitalismo comanda che si goda, più il godimento è in qualche modo escluso e sottratto; più è imperioso il comando a godere della merce, più questo godimento coatto e parziale produce mancanza-a-godere, poiché esclude il godimento assoluto, il plus-godere. Ma tutto questo movimento produce angoscia perché, attraverso il consumo degli oggetti parziali, fa di continuo capolino il reale pulsionale nella veste della pulsione di morte. Tutto sembra ruotare intorno allo statuto ambiguo dell’oggetto a. Esso è infatti da un lato la causa del desiderio, dall’altro è l’oggetto parziale prodotto della castrazione simbolica e che, coattivamente goduto, rafforza e esalta la mancanza-a-godere. I soggetti, coinvolti nel consumo, è come se, attraverso il godimento delle merci, quindi degli oggetti a, divenissero sempre più incapaci di godere sans phrase. Insomma è come se il consumo godente delle merci-oggetti a producesse una continua e inesorabile forclusione del godimento assoluto. È in questo che il discorso del capitalista si dimostra vincente e perdente nello stesso tempo. Produce una sorta di continuo godimento interrotto, nello stesso momento in cui, eccitando di continuo il desiderio, nei fatti lo raggela. I soggetti sono abbacinati da oggetti a che mostrano illusoriamente di poter colmare la mancanza ad essere attraverso il loro consumo coatto. Dall’altro lato questi oggetti mostrano sempre anche il loro lato reale producendo quote crescenti di angoscia che i consumatori cercano di deviare ancora attraverso il consumo oppure, specie nei periodi di crisi dei consumi, attraverso il meccanismo psichico dell’identificazione con il capo, supposto godente. Quando l’angoscia prodotta dalla vicinanza del reale pulsionale che appare negli oggetti a non può essere deviata dal consumo di altra merce, allora scatta il meccanismo psichico dell’identificazione attraverso il quale le masse consumatrici si mettono, e sono messe, in grado di arginare l’angoscia. Tuttavia, questo meccanismo, che sta dietro al successo dei leghismi e dei populismi mediatici contemporanei, non può certo essere la condizione di una politica emancipativa. Quest’ultima – se interpretiamo bene la proposta di Moroncini – sta dalla parte del sintomo, anche perché là dove c’è il sintomo non c’è l’angoscia. In una situazione psico-sociale in cui le masse dei qualunque esistono senza stabilità simbolica; in una situazione in cui l’immaginario dell’arte e della religione non sono più in grado di porre argini al reale traumatico – a quel reale distruttivo che è estimo, vale a dire che è un “fuori” assolutamente “interno” alla società e alla psiche; in una situazione psico-sociale come quella contemporanea, nella quale l’esistere, quindi, si è sempre più “singolarizzato”, una politica emancipativa radicale non può che percorrere la strada aperta dal sintomo, che deve essere assunto. Essere il proprio sintomo, in ultima istanza essere l’oggetto a (che Lacan, nel Seminario X, arriva a definire come la nostra “esistenza più radicale”), senza più “volerlo” per consumarlo, ebbene questa sembra la strada politica indicataci dall’ultimo Lacan. Perché è coltivando il sintomo che è possibile mantenere in vita il desiderio, sostiene Moroncini.