L’esistenza di Walter Benjamin è sempre stata segnata dalla sofferenza; nacque da una famiglia ricca ma fu costretto a guadagnarsi da vivere sempre con più difficoltà, tentò di accedere al mondo accademico (con una strepitosa dissertazione che è diventato poi il volume Il dramma barocco tedesco) ma da esso fu respinto perché non adatto (già allora si commettevano grossi errori) e infine morì suicida in maniera amaramente rocambolesca a Port Bou durante la fuga dalle persecuzioni naziste, quando il giorno dopo arrivò ai suoi compagni di viaggio il lasciapassare per continuare il viaggio. Giulio Busi su Il Sole 24 Ore lo ha definito con una formula particolarmente calzante «spiritello maligno», un uomo che nella sua vita è riuscito a «ingarbugliare anche le situazione più semplici», mosso da una «umana inadeguatezza».
Tutto questo vissuto emerge nei documenti raccolti dalla casa editrice Giuntina in L’angelo della storia. Testi, lettere, documenti (traduzione di Corrado Badocco), una ricca collezione in cui è possibile respirare l’affetto che gravitava attorno al filosofo tedesco che ha visto muoversi in suo aiuto, oltre alla Arendt, che figura insieme a Benjamin come autrice del libro, anche Gershom Scholem e Adorno, per fare due nomi particolarmente noti. Con la Arendt in particolare però Benjamin fu legato: si conobbero nel 1935, a Parigi, uniti nel loro essere esuli, impararono l’inglese per rafforzare il sogno della fuga dall’Europa nazista per approdare negli Stati Uniti (e pure Scholem e Adorno furono uniti nella fuga, il primo in Palestina nel 1923, il secondo in America) ma solo Arendt ci riuscì, più forte dell’amico. Il libro, testimonianza anche di questo rapporto profondo, raccoglie, oltre alla prefazione dei curatori Detlev Schottker e Erdmut Wizisla, il saggio di Hannah Arendt dedicato a Benjamin, il manoscritto delle Tesi di filosofia della storia affidato dallo stesso Benjamin ad Arendt (di cui sono riprodotte le pagine, dove è possibile vedere la scrittura del filosofo in tutta la sua precisione), il carteggio tra i due (ricco di riproduzioni delle lettere) e, infine, i carteggi tra Hannah Arendt, Gershom Scholem, Theodor Adorno e Bertolt Brecht (di cui in apertura è riportata una piccola poesia scritta dal drammaturgo quando ebbe conoscenza della morte dell’amico e incentrata sulla comune passione per gli scacchi e sulle loro partite: «Tattica di logoramente era quella da te preferita / quando al tavolino degli scacchi sedevi all’ombra del pero per una partita. / Il nemico che dai tuoi libri cacciato via ti avrebbe / logorare da uno come noialtri non ti lascerebbe») in vista della pubblicazione postuma delle opere di Benjamin.
Nell’ultima parte, quella composta dalle lettere in cui manca Benjamin come destinatario, ormai scomparso, si assiste ad un interesse sincero e commosso degli amici verso un’opera e una speculazione di cui già avevano intuito la grande importanza, nonché affiora, talvolta, tra le care parole, anche una sorta di rimpianto o senso di colpa per l’insufficienza dell’aiuto offerto a Benjamin dai suoi amici. Un volume dunque molto ricco, che soddisferà allo stesso tempo lo studioso di Benjamin, che troverà qui alcuni documenti assai importanti, ma anche il lettore che si avvicina al pensiero del filosofo tedesco, grazie all’esauriente e commosso saggio di Arendt, ma anche alla riproduzione delle fondamentali Tesi di filosofia della storia, vero e proprio caposaldo del suo pensiero; in generale l’opera filologica dei curatori riesce a collocare con precisione la continuità tra il pensiero di Benjamin e il periodo storico nel quale si è trovato, suo malgrado, a vivere, mostrando quella vicinanza quasi fisica tra il filosofo e i suoi oggetti di studio.
Il saggio di Arendt, che prende vita da una conferenza tenuta a Friburgo nel 1967 su Benjamin e da un saggio apparso in rivista e che qui viene riprodotto nella sua forma originale, costituisce il documento privilegiato di questo libro, anche perché indaga il carattere di Benjamin in tutte le sue idiosincrasie: leggere il saggio di Arendt, che vive di una scrittura cristallina, è come sentir parlare la filosofa del suo amico e con il suo amico, non nascondendo i suoi difetti e le sue problematiche, ma non mancando mai di sottolineare l’affetto che prova e che Benjamin ricambiava (tant’è vero che, in una lettera del 1937, Benjamin scrive a Arendt: «Le corde della mia gola nitriscono già dall’impazienza di confrontarsi con le Sue»). Arendt condensa in una figura appartenente alla cultura popolare ebraica la vita di Benjamin, riprendendo i riferimenti che lui fa nel corso della sua opera al personaggio del «gobbetto», riportando il luogo dove Benjamin lo ha conosciuto e quindi dove è iniziata la sua ossessione/maledizione.
Si tratta di una poesia che si trova nella raccolta di canti popolari La cornucopia del fanciullo: «In cantina voglio andare/il mio vinello vorrei bere:/un omino gobbo là compare/che scivolar di mano mi fece il bicchiere./In cucina voglio andare/riscaldar vorrei il mio brodino/un omino gobbo là compare/che romper cadendo mi fece il pentolino». Se quel gobbetto è colui che nell’infanzia, e quindi anche al Benjamin bambino, costituisce la personificazione delle insidie delle cose, colui che ti fa inciampare o cadere gli oggetti di mano, quando si cresce e si diviene adulti quella strana essenza cambia il suo volto e svela il suo carattere tragico che può essere condensato nella malasorte, «perchè non ci si accorge dello sguardo di quell’omino. Né di guardarlo, né di essere guardati. Ritrovandosi stravolti davanti ad un mucchio di cocci».
Arendt dice che la vita di Benjamin potrebbe essere raccontata proprio come una serie di questi mucchi di cocci, frammentazione di cui era ben consapevole anche Benjamin stesso: la vita di Benjamin «è una testimonianza così autentica dei tempi e dei luoghi più bui del nostro secolo, come l’opera che cotanta disperazione fu estorta dalla sua vita rimarrà paradigmatica della situazione spirituale di quel tempo». Prosegue su questa linea il testo di Arendt, lucido nel testimoniare un legame viscerale tra la vita di Benjamin e la sua opera, che si nutre della straordinarietà del tempo in cui è stata concepita, sempre mossa da questa «combinazione di debolezza e genialità divenute ormai tutt’uno, [che] non è stata conosciuta da nessuno meglio che da Benjamin, che l’aveva così magistralmente diagnosticata in Proust»; Benjamin è vissuto ed è morto così come Proust nella parole di Jacques Rivière, «è morto della stessa imperizia che gli ha permesso di scrivere la sua opera. È morto per inesperienza del mondo, perché non conosceva le regole più elementari di come funzionano le cose».
Un libro prezioso questo pubblicato da Giuntina, che permette, se ancora ce ne fosse bisogno, di riallacciare i fili di una storia fondamentale nella cultura del Novecento, che ha visto muoversi tra i migliori pensatori in un movimento unico e centrato, che mai si è allontanato dalla contingenza ma che anzi la ha innalzata ad oggetto di analisi privilegiato, in un afflato multidisciplinare fondamentale per capire una buona parte della storia del secolo attraverso uno dei suoi maggiori protagonisti, Walter Benjamin.