Nel corso della serie radiofonica Words Fail Me, il 29 aprile 1937, la BBC manda in onda la registrazione di Craftsmanship, una riflessione di Virginia Woolf sull’arte della scrittura, ad oggi l’unico documento audio sopravvissuto della grande scrittrice.
“Le parole, le parole inglesi sono piene di echi, di memorie, di associazioni.
Sono state in giro e hanno circolato sulle labbra della gente, nelle loro case, nelle strade, nei campi per così tanti secoli. Ed è proprio quella una delle principali difficoltà nella scrittura di oggi – che le parole sono ammassate con altri significati, con altre memorie, e contratto matrimoni tanto celebri nel passato. La splendida parola “vermiglio” per esempio – chi potrebbe farne uso senza ricordare gli “innumerevoli mari”?
Una volta, certamente, quando l’inglese era una lingua nuova, gli scrittori potevano inventare nuove parole, adoperarle. Oggigiorno è abbastanza facile inventare parole nuove – salgono sulle labbra ogni volta che abbiamo una nuova visione o proviamo una nuova sensazione – ma non possiamo servircene a causa del lungo retaggio della lingua inglese. Non è possibile usare una parola nuova di zecca all’interno di una lingua antica per l’ovvio e misterioso fatto che una parola non è un’entità a se stante, ma parte di altre parole. In realtà non è parola fino a quando non diventa parte di una frase. Le parole appartengono le une alle altre anche se, certamente, solo un grande poeta sa che la parola “vermiglio” appartiene a “innumerevoli mari”.
Combinare parole vecchie con parole nuove è fatale per la costituzione della frase. Per utilizzare propriamente nuove parole bisognerebbe inventare un intero nuovo linguaggio; e questo, sebbene lo approfondiremo, non riguarda per ora la nostra indagine. Nostro interesse è vedere quel che possiamo fare con il vecchio inglese per quello che è. Come possiamo combinare le vecchie parole in nuovi ordini così che sopravvivano, così che creino bellezza, così che dicano la verità? Ecco la domanda.
E la persona che sapesse rispondere a questa domanda meriterebbe qualsiasi corona di gloria che il mondo abbia da offrire. Pensate cosa potrebbe significare se voi poteste insegnare, o se poteste apprendere l’arte della scrittura. Perché, ogni libro, ogni quotidiano che aprireste, direbbe la verità, o creerebbe bellezza. Ma detto ciò, tuttavia si porrebbero, comparirebbero inevitabilmente degli ostacoli lungo la via, un impedimento nell’insegnare le parole. Eppure in questo momento almeno un centinaio di professori stanno tenendo una lezione sulla letteratura passata, almeno un migliaio di critici stanno commentando letteratura del presente, e centinaia su centinaia di giovani uomini e donne staranno sostenendo esami in letteratura inglese a pieni voti, e ancora – scriviamo meglio, leggiamo meglio di come abbiamo letto e scritto quattrocento anni fa quando noi eravamo senza senso critico, senza conferenze, senza istruzione?
La nostra moderna letteratura georgiana è una toppa su quella elisabettiana? Dunque, a chi daremo la colpa? Non ai nostri professori; non ai nostri critici; non ai nostri scrittori; ma alle parole. Sono le parole che vanno incolpate. Sono le più selvagge, le più libere, le più irresponsabili e meno educabili fra le cose. Naturalmente le puoi acchiappare e classificare e piazzarle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari; loro vivono nella mente. Se volete una prova di questo, considerate quanto spesso in momenti di emozione, quando abbiamo più bisogno di parole non ne troviamo nessuna. E il dizionario c’è, a nostra disposizione sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma le sappiamo usare?
No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Guardate ancora una volta ai dizionari. Lì, al di là di ogni dubbio giacciono opere ancora più splendide di Antonio e Cleopatra, poesie più amabili di Ode all’usignolo, novelle davanti alle quali Orgoglio e Pregiudizio e David Copperfield sono grossolani pasticci da dilettante. È solo questione di trovare le parole giuste e metterle nell’ordine esatto. Ma non possiamo farlo perché non vivono nei dizionari; vivono nella mente. E come vivono nella mente? Variamente e stranamente, come molti degli esseri umani vivono gironzolando qui e là, innamorandosi, accompagnandosi.
È vero che loro sono molto meno legate da cerimonie e convenzioni di quanto siamo noi. Parole regali si accoppiano con le comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, parole tedesche, parole indiane, parole nere, se gli viene il ghiribizzo. In verità quanto meno noi indaghiamo nel passato della nostra cara Madrelingua Inglese meglio sarà per la reputazione di quella signora. Perché è diventata una bella passeggiatrice.
Così porre qualsiasi legge per delle così incorreggibili vagabonde è peggio che inutile. Poche insignificanti regole di grammatica e di ortografia sono tutti i vincoli che possiamo porre loro. Tutto quello che possiamo dirne – mentre le sbirciamo da sopra l’orlo di quella profonda, nera e solo a intermittenza illuminata caverna nella quale vivono – tutto quello che possiamo dirne è che sembrano preferire le persone che pensano prima di usarle, e che sentono prima di usarle, ma pensare e sentire non a loro, ma a qualcosa di diverso. Sono molto sensibili, facilmente intimidite. Non amano che la loro purezza o impurezza venga discussa.
Se fondate un’associazione per l’inglese puro, loro vi mostreranno il loro risentimento fondandone un’altra per l’inglese impuro – da qui l’innaturale violenza di gran parte del linguaggio moderno; è una protesta contro i puritani. Loro sono molto democratiche, anche; loro credono che una parola sia tanto buona quanto un’altra; le parole maleducate sono buone quanto le parole educate, le parole incolte sono buone quanto le parole colte, non ci sono ranghi o titoli nella loro società. Nemmeno amano essere sollevate con la punta del pennino ed esaminate separatamente. Stanno insieme, in frasi, paragrafi, talvolta per intere pagine contemporaneamente. Loro detestano essere utili; detestano fare denaro; odiano tenere conferenze pubbliche. In breve, detestano qualsiasi cosa che le marchi con un significato o che le confini a una posa, perché è la loro natura cambiare. Forse quella è la loro caratteristica più sorprendente – la loro necessità di cambiamento. È perché la verità che cercano di catturare ha tanti lati, e la trasmettono rimanendo sfaccettate, illuminando prima in un modo poi nell’altro.
Così loro significano una cosa per una persona, un’altra cosa per un’altra persona; loro sono inintelligibili a una generazione, chiare come la luce del sole alla successiva. Ed è a causa di questa complessità, questo potere di significare differenti cose per differenti persone, che loro sopravvivono. Forse allora una ragione per cui non abbiamo grandi poeti, novellisti o critici letterari oggi è che ci rifiutiamo di lasciare alle parole la loro libertà. Le fissiamo a un significato solo, il loro significato vantaggioso, il significato che ci permette di prendere il treno, il significato che ci permette di passare gli esami…”
La traduzione in italiano è di Valentina Dolciotti e Silvia Giordano.