Abbiamo letto “ L’avventurosa storia dell’uzbeko muto “ scritto da Luis Sepulveda.
Sepulveda è un autore dal successo internazionale e amato soprattutto dai lettori italiani. Ha fatto della sua educazione sentimentale degli Anni Settanta il fulcro centrale del suo narrare, anche odierno, e si potrebbe dire che quel suo passato è diventato quasi una corazza, uno scudo, che gli impedisce di essere altro almeno una volta. Aveva iniziato con tre bei libri Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Il mondo alla fine del mondo, La frontiera scomparsa che coniugavano il racconto latinoamericano avventuroso con la sincerità quasi autobiografica, scritti con un lessico semplice e immediato che invitavano anche al sorriso, ad una simpatia personale e a un’identificazione con i personaggi. Certo non si avvicinava né al magico Marquez né alla robusta costruzione narrativa di Vargas Llosa né tantomeno al grande Julio Cortazar, ma ha riscosso un successo popolare trovando un suo naturale spazio nella letteratura cilena e latinoamericana. Poi ha scritto una serie di romanzi dagli esiti altalenanti ed ha perso un po’ lo smalto dell’origine narrativa, focalizzando le sue storie ( fatta eccezione per le favole come Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico e Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza ) su una specie di autobiografismo collettivo che riguardava la sua vita personale di esule e dei suoi compagni fuggiaschi dalle varie dittature latinoamericane. Il tutto veniva narrato senza pietismi e raccontandoli anche con ironia, senza tuttavia un particolare approfondimento psicologico e intimista dei personaggi. Narrativa popolare terzomondista e di sinistra che mostrava nel fondo una bontà e un politicamente corretto nei confronti di ingiustizie e violenze inenarrabili subite.
Ancora adesso, e questo suo ultimo romanzo L’avventurosa storia dell’uzbeko muto ne sembra la testimonianza più evidente, ci fa rilevare che quello scudo che l’autore non riesce a togliersi dalla mente e dalla penna è diventato quasi una gabbia claustrofobica e priva di vero significato. Sembra che debba ancora elaborare un lutto di quegli anni della prima giovinezza che lo hanno visto coinvolto in prima persona nella lotta tra socialismo cileno e la barbarie del pinochettismo con tutti i suoi addentellati. Come molti sanno Sepulveda oltre quarantacinque anni fa, poco più che ventenne, partecipò alla lotta per l’affermazione di Allende alle elezioni cilene del 1970, divenne uno degli uomini della scorta del Presidente, resistette al colpo di stato del generale Pinochet, finì in carcere, fu torturato e poi espulso dal suo Paese. Ha viaggiato per l’America Latina, ha partecipato alla colonna Simon Bolivar in Nicaragua con i Sandinisti e ha vissuto altre storie che anche in questa serie di racconti ricompaiono qui e là. Storie e personaggi descritti sempre in modo semplice e immediato, senza eroismi o particolari virtù, sempre con la sua ironia e disincanto; ma viene naturale pensare, che senso ha oggi usare uno stile e un tono e delle storie di questo genere che galleggiano su un già detto e sul già conosciuto per chi è anziano mentre non rappresentano quasi nulla per un lettore giovane che sa ben poco di quei tempi sia storici che emotivi. Sepulveda rischia di trasformarsi da autore di lotta e di rivolta ( un po’ come i lontani Intillimani ) in un raccontatore di fatti per vecchi rivoluzionari e gentili zie annoiate.
L’avventurosa storia dell’uzbeko muto è la raccolta di nove racconti, alcuni ambientati in Cile alla fine degli Anni Sessanta, inizio dei Settanta, ( Il soldato Capaev a Santiago del Cile, storia di tre adolescenti che vorrebbero fare un attentato contro gli Stati Uniti per la solidarietà con i vietcong – Blue Velvet, quattro amici rivoluzionari e un po’ cialtroni che vorrebbero compiere una rapina – Bichito e L’Operazione Meraviglia, invece sono il racconto di due rapine di esproprio proletario che vanno a buon fine una prima dell’avvento di Pinochet e una dopo il colpo di stato ), a questi si devono segnalare due raccontini poco più che leggibili Anno 59 Juche e L’altra morte del Che. C’è poi Il Disertore, un racconto quasi in diretta dell’ultimo giorno di vita di Ernesto Guevara de la Serna nella selva in Bolivia nel 1967. Il racconto più coinvolgente e tenero è sicuramente L’ultimo combattimento di Pepe Sodertalje, storia di un eroe senza storia, morto durante i combattimenti al sud del Nicaragua nella colonna Simon Bolivar e successivamente l’autore assieme ad un anarchico, vanno a cercare la moglie e il figlio di quel laconico combattente, nel nord della Svezia. Infine c’è il racconto che dà il titolo al libro, il protagonista non è naturalmente uzbeko né tantomeno muto, si chiama Ramiro, ha una borsa di studio per l’Università di Mosca, ma quando è lì non è contento né del socialismo né della vita che fa, finisce in Uzbekistan – allora regione dell’Unione Sovietica – da dove cerca di scappare con un trucco.
Ultimamente in un dibattito a cui ha partecipato in Italia ha dichiarato Sono cresciuto con un senso della collettività enorme che ha determinato in me un comportamento etico e sociale con cui sento di dover mantenermi coerente nella vita come nei miei libri. Noi invece gli risponderemmo che a volte la coerenza è un simulacro del rito e il rito è sostanzialmente una cosa morta.