Abbiamo visto Le Belve regia di Oliver Stone.
Tratto dal romanzo Le Belve di Don Winslow (pubblicato da Einaudi nel 2011), storia di culto negli States, apprezzato da Stephen King che ha paragonato i due giovani protagonisti Chon e Ben a Butch Cassidy e Sundance Kid (non gli autentici ma come li abbiamo visti nel film di George Roy Hill, cioè Paul Newman e Robert Redford – chissà perché non si cita mai un film molto più bello di Sam Peckinpah, con Butch e Sundance molto più veri e
intensi), arriva nelle sale italiane questo filmone dalla regia degna del miglior Stone ma dalla storia che sembra essere uscita da un telefilm americano un po’ lungo e sgangherato. Se fossimo dei Fantozzi potremmo alla fine del film dire “Per me è una boiata pazzesca”. Anche gli attori-culto che sono nella pellicola sembrano a volte delle caricature, un Travolta gonfio e banale, una Salma Hayek che quando non è bella fa la madre vedova messicana apprensiva e con un Benicio Del Toro immerso in un personaggio che gli toglie tutto il glamour che possiede e non sappiamo se è voluto dal regista. Mentre i due ragazzi protagonisti, il duro Chon e il buddista Ben sembrano anche loro usciti da qualche telefilm d’azione trasmesso la domenica sera.
Oliver Stone è un ottimo regista hollywoodiano che è comparso sulla scena mondiale alla fine degli Anni Settanta, dopo aver partecipato alla guerra del Vietnam e aver ricevuto la Bronze Star Medal al valor militare. Un po’ un duro, un po’ contestatore dell’America di quegli anni, ma sempre inserito in quel contesto che apparentemente rifiutava: una pecora nera della famiglia che però viene a pranzo per Natale. Prima come sceneggiatore (Fuga di mezzanotte diretto dal grande Alan Parker e con il compianto Brad Davis e il nostro Paolo Bonacelli), poi negli Anni Ottanta ha diretto dei film polemici, a volte coraggiosi, poi sempre più spesso in puro stile hollywoodiano: prima con Salvador, Platoon, Talk radio, poi Assassini nati, JFK, e negli ultimi anni ha realizzato anche Alexander, Wall street – il danaro non dorme mai e infine Le Belve. Ma forse per conservare uno spirito da non riconciliato ha diretto in questo nuovo secolo dei documentari come Comandante e Looking for Fidel su Fidel Castro, A sud del confine su Chavez che ha scandalizzato ipocriti nati e falsi moralisti della domenica.
Due amici fraterni il buddista Ben (Aaron Johnson), buonissimo e non violento, con i riccioli putteschi e hippie nel cuore, e Chon (Taylor Kitsch), capelli corti, espressione da duro, veterano di guerra e mercenario, vivono in una villa meravigliosa sul mare di Laguna Beach nel sud della California assieme ad una splendida ragazza borghese, Ofelia (Blake Lively) che condividono, amano e scopano a turno senza alcuna gelosia. E Ofelia ci spiega che la somma dei due – l’hippy e il duro – fa l’uomo dei sogni. I due giovani hanno un’azienda ben avviata: la più grande ditta di produzione e smercio di marijuana di ottima qualità. Va tutto alla grande, ma qualcosa deve succedere e succede: un cartello della droga messicano comandato da Elena (Salma Hayek – spesso al limite tra la donna più bella del mondo e una matrioska) intende prendersi il loro business, ma hanno anche bisogno dei due per curare la qualità e la produzione. Lei è sicura di convincerli mostrandogli dei filmati in cui i suoi uomini comandati da Lado (Benicio Del Toro) mozzano teste a ripetizione. In questo incontro-scontro un po’ lento e diluito su oltre due ore si inserisce il solito agente federale corrotto (John Travolta) che lavora per un po’ tutti.
Ben e Chon dapprima rifiutano, poi sotto minaccia fanno finta di accettare e decidono di abbandonare tutto per non essere complici del cartello ma il giorno della partenza segreta viene rapita Ofelia. Devono subire all’inizio, ma invece di cedere al ricatto, i due, decidono di smetterla con i buoni modi e la non violenza e vanno al contrattacco per riprendersi l’amata.
Oliver Stone ci ha abituato a film violenti e cruenti, ma c’era in fondo una ricerca di significati e un vedere una società attraverso uno specchio deformato che poi tanto deformato non era. Adesso, a quasi settant’anni, inserisce su una storia sinceramente banale e fiacca alcuni elementi pulp e violenti, dei dialoghi che possono sembrare involontariamente surreali se non comici, un montaggio non sempre serrato, una fotografia iperrealista. Insomma cose già viste da almeno una ventina d’anni (dalle Iene di Tarantino), lui che con altri registi ha fatto da apripista a Tarantino per il pulp adesso lo ripropone in modo convenzionale e patinato. Ed anche la scelta registica del doppio registro, il thriller classico e la divagazione sul genere, non sembra particolarmente riuscita.