Abbiamo visto Le nevi del Kilimangiaro diretto da Robert Guédiguian.
Guédiguian è figlio di immigrati, suo padre proveniva dall’Armenia, e lui è cresciuto negli anni Sessanta in un quartiere proletario di Marsiglia. Di quell’epoca e della sua educazione sentimentale ha conservato l’amore per la classe operaia, il rispetto morale e narrativo per quelle persone che hanno sempre sudato e lottato nella vita, spesso senza ottenere nessun sogno ma solo una vita piccolo borghese serena ma non soddisfacente per gli ideali che continuano ad avere anche se sfibrati e opacizzati. Guédiguian ricorda molto un altro autore (letterario, nel secondo caso) marsigliese, Jean Claude Izzo, stesso amore per i ‘perdenti’, stesso amore per Marsiglia, i suoi tramonti, il mare, l’amicizia e i pranzi e le cene conviviali con amici di sempre con davanti un po’ di bottiglie di vino. E questo senso di comunità e fratellanza lo riversa nei suoi film, anche portandosi, oltre la moglie (la brava attrice e sceneggiatrice Ariane Ascaride) i suoi amici attori (Jean-Pierre Darroussin, Gerard Meylan).
Guédiguian in Francia è un regista molto conosciuto e amato sia dal pubblico che dalla critica, in Italia invece è seguito solo da un pubblico di nicchia a lui fedele, anche quando i racconti della classe operaia diventano in alcuni tratti un po’ mielosi, fatti di troppi sorrisi, troppa bontà e forse con delle variabili più da dubbi borghesi che non operai. Insomma un Ken Loach in riva al mare, in una bella giornata di sole.
Ha esordito a ventisei anni con il film Dernier été (L’ultima estate – 1980), come protagonisti la moglie e Gerard Meyland; la storia di Bert e dei suoi amici nel quartiere di l’Estaque a Marsiglia, durante la chiusura delle fabbriche. Il suo secondo film è del 1983, Rouge Midi (Mezzogiorno rosso), storia di una migrante calabrese che arriva a Marsiglia nel 1920. Entrambi i film non sono mai giunti in Italia. E’ solo nel 1995 però che ottiene un vero e proprio successo in Francia e il suo film giunge anche da noi: Marius e Jeannett, successivamente realizza La ville est tranquille, A l’attaque, e il suo film di maggiore successo in Italia Marie-Jo e i suoi due amori, una specie di Julie e Jim in ambiente popolare.
Adesso giunge in Italia (negli stessi giorni del film di Kaurismaki – due film diversi ma con punti in contatto e importanti in un periodo di mediocrità e vecchiume narrativo e stilistico) Le nevi del Kilimangiaro, il titolo è preso da una celebre canzone di Pascal Danel degli anni sessanta (potete ascoltare la canzone originale in un video su Youtube), ispirato dal grande poema classico Les pauvre gens di Victor Hugo e forse dall’omonimo film del 1938 di Antoine Mourre.
Nel quartiere portuale di Marsiglia vivono Michel e Marie Claire, due cinquantenni sposati da trenta, si amano ancora, si rispettano e non hanno idee bislacche nella testa; vivono la loro età con serenità e sono fondamentalmente felici, hanno due figli sposati che a loro volta hanno fatto dei figli, hanno degli amici e appartengono a quella classe operaia che ha sudato, sgobbato e lottato tutta la vita e adesso si godono una vita piccolo borghese semplice ma soddisfacente. Michel è un sindacalista e quando la sua fabbrica deve licenziare una ventina di operai, lui non evita il rischio e perde il posto di lavoro; accetta con serenità il licenziamento e aspettando la pensione si ritira a vita privata, tra nipotini piccoli e deliziosi, lavoretti a casa dei figli e cene con i compagni di lavoro e gli amici. Marie Claire invece continua a pulire case e a fare saltuariamente la badante a una vecchia signora. Gente a posto insomma, compagni con degli ideali consolidati e senza alcuna smania di denaro e consumi: quello che un tempo era la classe operaia anche in Italia, senza andare in paradiso e senza le escandescenze del collega Lulù Massa (citiamo il film di Elio Petri, famosissimo negli anni settanta).
Dopo un inizio un po’ lento e forse un po’ troppo roseo, nonostante sullo sfondo ci siano gru ferme e fabbriche chiuse, entra in questa bella famiglia il dramma: una sera in casa, mentre giocano a carte con la sorella di lei e il marito, vengono brutalmente rapinati dei soldi, dei bancomat e di due biglietto d’aereo per fare un viaggio in Africa, regalati dagli amici e dai figli con una colletta per il trentennale del loro matrimonio. Ognuno dei quattro reagisce in modo differente al furto, e Michel, mentre si sta riprendendo dallo choc e col braccio rotto, scopre casualmente che ad averlo derubato è stato un giovane operaio, suo ex collega di fabbrica e licenziato con lui. Senza pensarci su lo denuncia e lo fa arrestare. Ma questo gesto gli costerà dubbi, una messa in crisi della sua vita piccolo borghese, una constatazione di difficoltà del sindacato di comunicare con le giovani generazioni, una riflessione sui suoi ideali ormai dati per certi ma sbiaditi nel tempo e un ripensamento su quello che si sarebbe voluto per sé e per la società e quello che in realtà è poi avvenuto. Quindi sensi di colpa, bilanci e tentativi di trovare una via di compromesso tra sogni e realtà. Il tutto è ‘drammatizzato’ dalla scoperta che il ragazzo che li ha derubati e che è finito in carcere è l’unico sostentamento economico e affettivo dei due fratellini, come lui abbandonati dalla madre e senza un padre. Ma il finale risulterà dolce e più cristiano che marxiano.
Una regia semplice e lucida, una buona fotografia, ma soprattutto un cast fuori dal comune, dalla recitazione sorprendente e contenuta, dai visi veri da film del Fronte Popolare. Da segnalare e ricordare soprattutto Jean-Pierre Darroussin (c’è anche nel film Miracolo a Le Havre di Kaurismaki) Ariane Ascaride (qualche risata in meno comunque non avrebbe guastato), Gérard Meylan, Marilyne Canto.