In occasione della retrospettiva che Filmmaker Festival (28 novembre – 8 dicembre) dedica a Lech Kowalski, pubblichiamo un estratto del volume monografico Camera Gun: il cinema ribelle di Lech Kowalski, a cura di Alessandro Stellino (Agenzia X). Il regista, presente a Milano per la durata del festival, terrà una masterclass presso il cinema Beltrade domenica 30 novembre.
Prima che il cinema contemporaneo cominciasse a farsi domande sulla propria capacità di filmare l’esistente, di cogliere la vita nella sua verità, condannato dall’inesistenza materica del digitale, lontano dalla grana spessa della pellicola, inevitabilmente bloccato nell’algida perfezione dell’alta definizione, Lech Kowalski ha fatto in tempo a filmare il corpo umano come un campo di battaglia, terreno segnato da storie ed esperienze.
«Sulle mie braccia c’è tutta la mia storia», dice Dee Dee Ramone in Hey Is Dee Dee Home (2003), rivolto a Kowalski che lo filma, lo ascolta e lo osserva fuoricampo. E Dee Dee, già nel 1992, è un reduce del passato, un’icona sopravvissuta e degradata: sta lì, davanti alla macchina da presa, stagliato su uno sfondo scuro, solo per quelle braccia tatuate e quel petto scritto più di un libro, per quelle incisioni che lui stesso considerava l’unica cosa rimastagli dopo anni di droga, eccessi, strade gelate di New York e varie vite abbandonate lungo quelle strade. Il Dee Dee Ramone di Kowalski è una figura indimenticabile, ricorda il Max Cady di Scorsese, virato in farsa e al tempo stesso tragicamente vero. Il regista lo filma affascinato, rapito, e, come l’avvocato interpretato da Robert Mitchum in Cape Fear, di fronte alla schiena e al petto di Cady, deve aver pensato: «Oh, Cristo, non so più se lo devo esaminare o se lo devo leggere».
Un corpo, tanto basta per fare cinema. E non si tratta certo di un’eccezione, nella filmografia di Kowalski. Si pensi a Camera Gun: uno sfondo nero, un corpo mutilato, la macchina da presa che lo indaga. Persino il film più rappresentativo del suo cinema, East of Paradise, poggia in buona parte sulla corporeità dei soggetti filmati: tutta la prima metà vede una sola donna in campo, la madre del regista, e il racconto lungo e doloroso di una deportazione, di una vicinanza con la morte che per il fatto stesso di essere raccontata diventa epica della sopravvivenza, miseria della vita e preziosissima testimonianza. Per Kowalski è l’origine di tutto: della sua presenza nel mondo, naturalmente, e del suo stesso cinema. Lo sguardo del regista scruta da vicino il corpo della madre, la pelle, gli occhi, la bocca, il primo piano, un particolare, la figura intera compostamente seduta; e per quaranta minuti filma in ascolto, in osservazione composta. Lui, il figlio, il frutto di quella lotta per la sopravvivenza, si nasconde, ma in realtà non è mai stato così vicino al cuore del proprio cinema, alla ragione per cui ha sempre cercato, fin dai primissimi film realizzati nella mitologica New York dell’underground, di osservare il mondo come un cumulo di macerie abitato da uomini e donne vivi, seppur feriti nel profondo.
Con Dee Dee Ramone gli è bastato seguire il filo dei suoi racconti: la droga, l’abbandono, l’intontimento e il piacere nella Manhattan dei primi anni ’70, un mondo tanto lontano ed esaltante quanto vero e disperato, il set reale e immaginario di vite sospese tra tragedia e farsa. Nel caso di sua madre, invece, la fame, lo sfinimento e il cammino lungo la via dell’esilio si fanno tasselli della rappresentazione di una personalità ferita ma tenace, piegata ma non distrutta. Il segreto sta sempre nel loro corpo, presenza di cui Kowalski si fa tramite per raccontare una resistenza (non importa se vincente o perdente) da parte del singolo che si oppone all’annichilimento. Il corpo diventa così un attestato di sopravvivenza: per il jihadista di Camera Gun, senza più una gamba e con addosso una rabbia e una cocciutaggine inesauribili; per i punk produttori di stivali in pelle di The Boot Factory, per i quali quelle calzature lucide e nere sono una prima pelle; per i disperati incrociati On Hitler’s Highway, ricettacoli di storie gravide di un passato segnato dall’Olocausto che nel presente non trovano sfogo se non attraverso l’atto di filmare del regista.
Lo stesso vale per Dee Dee Ramone, già morto all’uscita del film, ma soprattutto già un reduce ai tempi delle riprese. Kowalski non giudica, filma Dee Dee nell’oscurità non per scontornarlo e toglierlo dal suo spazio, ma al contrario per farne emergere la figura, il corpo come totem di una vita spinta al limite, non certo emblema di un’assenza. Kowalski non è ancora oltre l’umano: delle questioni sull’immaterialità dell’immagine numerica non sa cosa farsene. La sua macchina da presa, in video, 16mm o digitale, non si domanda mai chi sia la persona che ha davanti, se quella vera o la sua rappresentazione: il corpo è testimonianza sufficiente. E Dee Dee Ramone, che di tutti i suoi corpi è il più intenso, diventa cinema in virtù nella sua nudità. «Too tough to die», legge da un tatuaggio sull’avambraccio, “troppo tosto per morire”. E, per il cinema, non conta che sia già morto.
Con Johnny Thunders in Born to Lose, invece, le cose vanno diversamente: agli occhi del regista, il corpo di Thunders è quello di un’intera generazione, di un movimento ormai dissolto; il corpo che riassume la volontaria, estasiata autodistruzione di un mondo di artisti, tossici, punk di cui anche lui ha fatto parte. Kowalski vi si ritrova, ma come davanti al mistero della presenza di qualcuno che sarebbe dovuto essere morto da un pezzo e ancora vive (ma non per molto, dato che anche Born to Lose è un film “postumo”).
Per questo motivo, Born to Lose non ha nulla di agiografico o elogiativo, è anzi un film secco, lungi dall’essere malinconico o nostalgico. Un grande film essenziale sui resti di un mondo bellissimo e devastato, un viaggio intontito in una realtà decrepita, un film sul fallimento come pochi altri nella storia del cinema e che nel fallimento del suo eroe (“nato per perdere”) si rispecchia. Lontano dall’allegria diretta e scanzonata di Hey Is Dee Dee Home, Born to Lose è (meravigliosamente) tormentato, dispersivo, quasi fosse il racconto di un insonne. Non è un caso che sia stato montato, presentato e poi rimontato infinite volte: infuso di spirito punk, trasforma l’incapacità (l’inutilità?) di trovare il bandolo della matassa nella forma stessa del film, nel caleidoscopio di testimonianze in cui si rifrange l’immagine (mitica e corporea allo stesso tempo) di Johnny Thunders.
Da quest’ansia di riconoscimento e recupero prende forma anche la seconda parte di East of Paradise, in cui il regista rinasce idealmente dal corpo della madre e si perde in un soliloquio doloroso sulle immagini del proprio cinema e sui resti della propria storia. Il racconto della madre, la lunga e straziante rievocazione della deportazione dalla Polonia al gulag della Siberia dopo la Seconda guerra mondiale, emerge come un imprinting involontario: chiama in causa il suo modo di guardare e vivere, di interrogare la realtà e interpretare i propri ricordi e le proprie motivazioni. Per anni, Kowalski si è servito del cinema come estensione del corpo e dell’anima, ha filmato ore e ore di materiale con la consapevolezza che la sola scelta importante fosse quella tra lo stare dentro l’inquadratura ed esserne fuori; e che un solo controcampo fosse possibile: quello su di sé, riflesso del proprio obiettivo, lo svelamento del proprio corpo. Così, in East of Paradise, Kowalski compare in uno specchio, intento al lavoro, il corpo piegato in avanti, le mani sulle ginocchia, di fianco alla macchina da presa in posizione di ascolto e osservazione; e, poi, fotografato dalla sua stessa madre, in una resa del potere tra chi filma e chi è filmato mai così esplicita.
Ecco perché East of Paradise può essere considerato il punto di non ritorno, un modo di chiudere definitivamente i conti con se stesso e la propria storia. Il cinema di Kowalski è profondamente influenzato dall’affetto nei confronti di ciò che guarda, vale la pena ribadirlo; e al tempo stesso da una distanza, dall’approccio critico verso ciò che si sforza di comprendere e condividere. Sempre, quando ama con tutto se stesso ciò che filma, Kowalski riconosce dignità e potere seduttivo alle personalità raccolte dentro corpi imponenti (Dee Dee), stanchi (Johnny Thunders), mutilati (Aukai Collins, il soldato di Camera Gun) o solo apparentemente fragili (sua madre), figure tragiche nel loro farsi testimonianza di uno scontro impari con la Storia e con il passare del tempo. E questo perché l’interesse autentico e vorace per la loro solitudine e la loro è tutto per la loro nuda dimensione materiale, per la loro fisicità scolpita sullo schermo che Kowalski trasforma in puro simbolo. Simbolo di alienazione, di rabbia o, meglio ancora, di una tensione irrisolta – e per questo vivissima e splendidamente cinematografica – tra partecipazione ed esclusione, distanza e coinvolgimento, salvezza e perdizione.
Kowalski ha raccontato per tutta una vita dropout, tossici, senzatetto, punk, rifiutati ed esiliati, senza mai indugiare nella loro esclusione. Ciascuna delle sue figure è sempre stata, prima di tutto, un individuo sociale, un essere umano partecipe, volente o nolente, del proprio tempo, la cui dimensione spirituale e materiale chiamava in causa un senso universale di appartenenza. In questo inatteso orgoglio civile che attraversa l’uomo sta soprattutto il valore politico del suo cinema, più ancora che nelle lotte ambientaliste e militanti degli ultimi anni. Nelle macerie del Lower East Side o lungo l’autostrada voluta da Hitler attraverso l’infinita pianura dell’Europa Centrale, lontano dal paradiso, Kowalski ha descritto un mondo disperso, disperato, povero, ravvivato da un sentimento irriducibile di resistenza, dalla certezza, anche nei bassifondi, di potersi fare comunità.
Come dichiara nel magnifico finale di On Hitler’s Highway (“loro sono me”), Kowalski ha filmato il corpo degli altri per parlare di sé, li ha osservati per specchiarsi, ha studiato la vita dei suoi simili per capire cosa aveva da spartire con il mondo. Ciò che lo divide dalla società degli uomini, ciò che lo tiene a distanza da questa società, lo ha sempre saputo fin troppo bene, ed è per questo che, con il proprio cinema e nell’alterità, Kowalski non ribadisce un’esclusione ma cerca un punto di contatto, l’intersezione costante, cruciale tra storia personale e vita collettiva. Avvicinarsi agli altri per capire meglio se stessi e trovare un senso di appartenenza.