Abbiamo visto “ Educazione siberiana “ regia di Gabriele Salvatores.
Un merito di Salvatores è quella di cercare spesso nuove strade narrative ed estetiche, cercando di sperimentare nuovi linguaggi, ma essendo un regista dall’indole schiva, quasi ritroso a mostrare sentimenti veri e anche situazioni spiacevoli rende a volte i suoi tentativi dei ‘ vorrei ma non posso ‘. Prendiamo il romanzo “ Educazione siberiana “ – scritto da Nicolai Lilin ( Einaudi Editore ), un autore trentenne di origini siberiane che ha vissuto in Transnistria fino all’età di 18 anni e dal 2003 vive in Italia e lavora a Milano -, un gran bel libro tosto, originale che entra nelle viscere di una realtà che non conosciamo e lontanissima dalla nostra ‘ educazione sentimentale ‘ ( “ È folle volere troppo. Un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore può amare ! ” insegna nonno Kuzja ai due adolescenti ). Immaginiamo che l’intenzione del regista sia di fare un affresco storico-sociale ( Un accenno all’Unione Sovietica di Stalin fino alla caduta del muro di Berlino e alla vita in Moldavia nel post Gorbaciov, dove però in realtà non cambia niente per i protagonisti se non per la visione di qualche grattacielo, qualche pacco di droga e ascoltare della musica americana ); tutto questo visto attraverso la morale e gli occhi di criminali assai assomiglianti eticamente ai nostri vecchi mafiosi: famiglia, religione, rispetto delle regole e dell’omertà, odio verso la sbirraglia. Insomma molta carne a cuocere ed anche un magma incandescente, cosa fa Salvatores per iniziare ? Si affida a due sceneggiatori italiani di prestigio ma che potrebbero essere paragonati in politica a Bersani e D’Alema. Due sceneggiatori che non potrebbero superare il confine italiano, figuriamoci se possono giungere nei cuori di siberiani al tempo di Stalin e nella comunità Urka di Fiume Freddo; e la storia già va fuori registro, perdendo di profondità, coinvolgimento, empatia e rimanendo in un algido terreno di mezzo. A questo peccato originale Salvatores aggiunge un montaggio che rompe lo spazio e il tempo ( ma non siamo né al primo Kubrick né tantomeno a Inarritu ) facendo svolgere i tre tempi della storia non in modo progressivo ma ‘ mischiando ‘ i tempi. E quindi ci viene in mente “ C’era una volta in America “, ma del film di Leone non c’è l’idea popolare del racconto, non c’è l’empatia con i protagonisti e, una ottima scenografia e fotografia, ci rendono la storia troppo distante, fredda, ‘ documentaristica ‘. Tanto che l’idea della violenza, della sopraffazione, degli ultimi che non si sentono ultimi perché sentono un’appartenenza, dell’innocenza che soccombe senza un motivo, diventano più supposizioni, date per date che non vera drammaturgia. Salvatores per fortuna ( ma anche forse per scelta o limiti personali ) evita la rappresentazione di genere e allo stesso tempo usa l’ellissi narrativa da cinema d’autore in una ricerca formale affascinante e curatissima ma che spesso diventa effimera e forse gratuita, spiazzando l’emotività dello spettatore che dopo pochi minuti resta in fondo passivo e indifferente.
All’inizio del film ci viene detto che la comunità Urka – un popolo che viveva nella lontana Siberia – fu deportata da Stalin in un luogo sperduto ai confini tra la Moldavia e la Transnistra, per tenerli lontani dal mondo sovietico ( con loro, tutte le altre etnie che mal si adattavano al regime sovietico ). Nella dura vita della comunità Urka non esiste lo stupro, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si può solo rapinare e uccidere, ma per un valido motivo. Si può truffare, ma solo i ricchi. E ci sono molte regole da osservare, come non avere i soldi in casa, non tenere assieme le armi da caccia e quelle per uccidere. E quando un’arma tocca l’altra per purificarla bisogna avvolgerla in un panno con liquido amniotico, seppellire il tutto e dopo un po’ arriva la purificazione. E soprattutto è vietato agli uomini di parlare con le forze dell’ordine.
In questa specie di ghetto per criminali di varie etnie, due bambini di 10 anni, Kolima e Gagarin ( siamo dopo la caduta del muro di Berlino ) crescono insieme ad altri due ragazzini, più buoni e con minore personalità. L’educazione sentimentale e morale che ricevono dal nonno – il capoclan della comunità Urka di Fiume Freddo – è anche il furto, la rapina, l’uso delle armi, l’odio verso la polizia e l’esercito e il rispetto delle regole. Dopo una rapina ad un camion dell’esercito, Gagarin viene arrestato e condannato a sette anni. I due ragazzini crescono lontani l’uno dall’altro mentre il mondo intorno sta cambiando radicalmente. E quando il ventenne Gagarin torna dal carcere ritrova gli amici di un tempo e un mondo nuovo fatto anche di ricchezza, di droga e di denaro e ricostituita la banda hanno voglia di prendersi quel mondo anche senza rispettare le famose regole della comunità. Come abbiamo detto la storia non è progressiva e dopo un po’ si mescolano tre diversi momenti della vita dei due protagonisti: l’adolescenza, dove nasce e si rafforza l’amicizia di Kolima e Gagarin con i coetanei Mel e Vitalic e ci si confronta con le regole del codice d’onore della comunità; l’ingresso nell’età adulta, con l’entrata in scena della giovane Xenia e con la sua demenza; e la resa dei conti finali, tra i due ex amici Kolima e Gagarin schierati su fronti opposti e colpevoli di nefandezze opposte.
Un vero peccato il risultato finale, perché c’era un libro corposo e profondo come storia, un budget vero, da film internazionale, e un premio oscar a dirigerlo. A questo si aggiunga un cast tecnico notevole, un John Malkovic in buona forma e alcuni attori da ricordare come la giovane Eleanor Tomlinson, il quasi debuttante Vilius Tumalavicius e l’attore svedese Peter Stormare