Lo ricordo bene, quel 27 ottobre di un autunno molto caldo, il 1969. Il concerto era un grande avvenimento per gli appassionati lacerati dalla strada che stava prendendo il jazz: da una parte con l’astrattismo del free, dall’altra con la contaminazione elettrica del rock.
Fino ad allora Miles Davis rappresentava la certezza dei sostenitori dell’ortodossia, il baluardo a cui aggrapparsi. L’ultima volta che era arrivato in Italia, al festival di Lecco del ‘67, indossava il solito completo blù con la cravatta a pallini e guidava il solito fantastico quintetto acustico con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams. Ma stavolta era preceduto da un paio di dischi sconcertanti per i fan della purezza.
Nel Sistina mezzo vuoto c’era un quintetto che sembrava appena sbarcato da Woodstock, a cominciare dal leader con il guardaroba rifatto: pantaloni di pelle, maglia scollata, foulard, vistosi braccialetti di metallo. La musica era un magma in mutazione: una strepitosa Round midnight accanto all’assaggio di qualcosa indefinito, preannuncio di quanto sarebbe arrivato solo qualche mese dopo, Bitches brew (già inciso due mesi prima, ma ancora non pubblicato).
Quella nuova band sempre con Wayne Shorter, ma con l’innesto di Chick Corea, Dave Holland e Jack De Johnette non avrebbe mai registrato un disco in studio, ma resta il laboratorio del cambiamento. Per questo è oggetto di attenzione e viene ricordata con un nome che mira a sottolinearne l’importanza, sia pure con qualche approssimazione: The lost quintet. In realtà è una definizione di comodo, perché durante quella tournée sono state documentate varie serate, compreso il concerto del Sistina che esiste come bootleg (Double image) da almeno una trentina d’anni, ma quella band è entrata anche in album ufficiali come Miles Davis Festival Jun Les Pins 1969, mentre l’anno scorso, The lost quintet, è stato rilanciato con la registrazione della tappa di Rotterdam.
A distanza di mezzo secolo il quintetto elettrico di Davis è diventato anche lo spunto per un libro che prende a prestito quel nome e il suo alone di mistero, Il quintetto perduto. E’ l’occasione per un viaggio nella svolta più drastica della carriera di Miles, quel suo voltare le spalle che ha turbato il mondo del jazz, ma che ha finito per consacrarlo come fenomeno unico per popolarità, consenso, voglia di esplorare.
E dire che Miles all’inizio aveva fortemente snobbato l’indirizzo che il jazz stava prendendo. Lo snobbava, ma si incuriosiva. Come si incuriosiva per i campioni dell’avanguardia free, per l’adorato John Coltrane e per il più singolare di tutti Ornette Coleman (ma detestava Don Cherry). Si incuriosiva e un po’ gli seccava di non essere lui il faro, il centro dell’attenzione.
Poi nel ‘67 è successo qualcosa nella sua vita. Ha incontrato Betty Mabry, attrice e cantante, allora fidanzata con un altro trombettista, Hugh Masakela, ma legata al rock psichedelico di Jimi Hendrix e al funk di Sly Stone. Era da poco tornato dal tour europeo e con Betty smette giacca e cravatta, fa entrare nella sua musica piano elettrico e chitarra elettrica. L’incontro è un colpo di fulmine: si incrociano in discoteca, poi lei va a sentirlo al Village Gate.
Durante l’intervallo Miles le manda il suo bodyguard con un bigliettino: «Il trombettista vorrebbe bere un drink con lei». Da una parte c’è Betty, bella, vivace, un uragano «qualcosa come Prince al femminile» (l’ha definita lui nella sua autobiografia), dall’altra la casa discografica che spinge e vede con favore una svolta che si rivolga a un nuovo pubblico, visto che quello del jazz è in crisi, infine c’è lui il divino trombettista con il suo istinto, il gusto di essere sempre in prima fila.
Il jazz offre poco sul piano dell’idee e, allora, eccolo avvicinarsi al mondo di Betty. Nell’album Miles in the sky usa per la prima volta una chitarra elettrica, a suonarla è George Benson (ma rimane deluso), subito dopo incide Filles de Kilimangiaro (dedicato a Betty, c’è anche la sua foto in copertina) dove chiama Corea e Holland.
A ruota registra un capolavoro, In a silent way, il disco della trasformazione completata dove si aggiungono anche John McLaughlin e Joe Zawinul. Il dado è tratto. Partecipa a qualche jam con Jimi Hendrix, fantastico chitarrista che ammira tanto, al punto da copiargli l’abbigliamento, ed è ammirato anche da Betty (si parla di un tradimento che, dopo un anno ha rotto il loro matrimonio).
Suonano e parlano, Miles e Jimi. Progettano, anche: «Facciamo un disco». E sono tutti d’accordo: a loro si aggiunge Tony Williams, l’ex batterista che Davis aveva lanciato a soli 17 anni, e che ora guida una band, Lifetime, di grande impatto. C’è, però, bisogno di un bassista e un giorno mandano un telegramma a Paul McCartney firmato «peace: Jimi Hendrix, Miles Davis, Tony Williams». Diceva il telegramma: «Stiamo per registrare un LP questo week end, che ne pensi di venire a suonare il basso?». Il destinatario, Paul McCartney, però era in vacanza. Il progetto saltò, non solo per la defezione dell’ex beatle, ma anche perché Miles voleva un anticipo di 50 mila dollari.
Il libro, Il quintetto perduto e altre rivoluzioni, pubblicato in italiano da Quodlibet, scritto da Bob Gluck, un pianista, compositore ed educatore, non affronta il rapporto di Jimi e Miles, se non di sfuggita. Si dilunga, però, sulla fascinazione del divino trombettista verso il nuovo fronte sonoro e sulla sua singolare capacità di tenere insieme il mondo del rock e dell’avanguardia, di cui sono un tramite Holland e Corea per i loro rapporti con Anthony Braxton, un campione del jazz creativo. La musica di Bitches brew prova a fondere quei due emisferi, è un quadro musicale elettrico ed astratto e compie il miracolo di trasformarsi in un successo commerciale.
Dei progetti con Hendrix, dopo la mancata seduta con Williams e McCartney, non se ne fece più nulla anche se al Festival di Wight del ’70 Miles e Jimi si incontrarono e decisero di vedersi a Londra per discutere un nuovo accordo. Davis arrivò tardi per il traffico, Hendrix era ripartito. Stabilirono, allora, di ritrovarsi a New York, dove in studio li avrebbe aspettati un mago come Gil Evans, il partner e consigliere di tante avventure di Miles: Jimi aveva già il biglietto, ma il giorno prima della partenza, il 18 settembre, il suo corpo fu trovato privo di vita nell’appartamento che aveva affittato al Samarkand Hotel di Londra, soffocato da un conato di vomito causato da un cocktail di alcool e tranquillanti.
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