Conosco bene l’incedere dell’esitazione, il sostare perplesso al di qua delle scelte che la vita via via impone. Chi non si è mai impantanato nelle fluttuazioni di quella incertezza corrosiva, che non consente lo sviluppo di una qualsiasi azione? L’esitazione, l’incertezza, la titubanza, frenano, bloccano, o intralciano le disposizioni del volere, spengono il suo fuoco, facendo precipitare il soggetto in un’inerzia destinata a produrne la paralisi. Forse per un’infezione dell’anima, o forse, l’esitazione altro non è che la richiesta di un supplemento di senso. Esigente, non si accontenta delle ragioni dell’agire. Troppo sbrigative. L’esitazione ne diffida. E, a sua volta, il tempo, il nostro tempo, diffida dell’esitazione, non attribuendole alcun valore conoscitivo. Si arriva a conoscere solo nel movimento dell’agire, così si dice. Non c’è conoscenza nei tentennamenti dell’esitazione: essa appare come pura negatività, per quanto possa essere pronunciata con voce sommessa che tende a sbiadire nei sussulti senza esito dell’interiorità, perdendosi poi nel suo labirinto.

In una società a tecnologia avanzata, come si proclama la nostra, l’esitazione non può avere cittadinanza, è fuori-luogo, Tuttavia c’è, e, furtivamente, continua a presentarsi nei bivi dell’agire spesso inchiodandoci. Ma non viene riconosciuta. Lavora sotterraneamente.

Dunque non mi sorprende che un piccolo straordinario libro dedicato all’esitazione (Joseph Vogl, Sull’esitare, Obarrao edizioni) sia passato del tutto sotto silenzio. Salvo una recensione che si legge qui apparsa su Tuttolibri il 2 ottobre 2010.

Il libro è uscito quasi quindici anni fa in una collana dedicata ai “nuovi gesti del pensiero”, assumendo l’esitazione come un “nuovo gesto del pensiero”. Nel frattempo, in questi anni, l’esitazione, senza troppo clamore, si è allargata a comportamento sociale e metodo di governo mascherato da minacciosa frenesia decisionista.

Joseph Vogl è filosofo, traduttore in Germania di Derrida e Lyotard, e storico della letteratura, ha insegnato alla Humboldt di Berlino, e insegna ora a Princeton. Dunque carte in regola, curriculum d’ampio respiro, florida produzione bibliografica. Ma niente, nessuna attenzione per il suo piccolo libro, e nessuna attenzione per il tema che esso sviluppa, con passaggi veloci, dal Mosè biblico, e poi freudiano, ai greci, fino a Kafka, che dell’esitazione fa un “principio interiore”.

Forse si può fare una certa fatica a collocare i tormenti dell’esitazione nella cornice di questi “pensieri impazienti”, a meno che non li si guardi diversamente, quei tormenti, allora, potrebbero apparire come una irresolutezza scalpitante, un’indeterminazione irrequieta, che chiede di essere pensata, quasi un nebuloso nulla, che reclama di diventare qualcosa. E questo è il “nuovo gesto” di Joseph Vogl, che traccia le sequenze serrate di una storia, là dove apparivano soltanto figure chiuse in se stesse.

Conta poco più di 100 pagine il libro di Joseph Vogl, ma interroga l’intera “cultura occidentale dell’azione”. Calcano la sua scena i “veri titani” dell’esitazione, dal Bartleby di Melville, al Monsieur Teste di Paul Valery, da Jakob von Gunten di Robert Walser a L’uomo senza qualità di Musil. Tutti questi “personaggi” si sottraggono all’essere e al fare, non si offrono a una “volontà univoca”, e non rispondono agli “impulsi chiaramente indirizzati”. Il “preferisco di no” di Bartleby ne è l’emblema. E altrettanto emblematico l’Ulrich di Musil. “Confuso e indeciso”, egli “esita a fare di sé qualcosa”. “L’uomo senza qualità” è “colui che esita”, dove l’esitazione si fa esercizio metodico.

Poi, Kafka. Il Castello è una raffigurazione monumentale dell’esitazione: “per tutto il romanzo – osserva Vogl – K. non supererà mai il confine, non passerà mai dal villaggio al Castello, verrà continuamente disturbato… e continuerà a vagare alla periferia del Castello”. Come K., Franz Kafka resta fuori, esitante si muove sulla soglia, in una specie di dinamismo da fermo. “Lei non è del Castello, non è del villaggio, lei non è nessuno. Anzi sfortunatamente anche lei è qualcuno, e cioè un estraneo, uno che è sempre fra i piedi… uno che è causa di continue seccature”, sono le parole aspre con cui la locandiera apostrofa l’agrimensore. Ed è lo status sociale e mentale dell’ebreo Franz Kafka, estraneo alla comunità degli ebrei praghesi, estraneo alla sua stessa vita. Per la “creatura debole, dubbiosa, paurosa”, il “figlio diseredato” che parla nella “Lettera al padre”, inarrivabile è “il grande avvenire virile”, inarrivabili decisione e azione. “Per quarant’anni ho errato fuori dalla terra di Canaan”, scrive nel 1922, a due anni dalla morte, ed è una sorta di dichiarazione testamentaria. Come, d’altra parte, accade all’“uomo di campagna” di “Davanti alla Legge”, che, per tutta la vita, aspetta di attraversare una porta da sempre già aperta.

Dove approda il piccolo libro di Joseph Vogl, che, lungo i secoli, si è mosso sulla faglia instabile dell’esitazione, terra malferma, spazio precario e insicuro. L’epilogo della storia tracciata da Vogl potrebbe essere questo: “L’esitazione interrompe la continuità del processo storico, ne blocca il seguito e rinvia in tal modo alla contingenza dell’essere attuale e alle sue condizioni. Stimola, se vogliamo, un’ontologia critica di noi stessi, di ciò che diciamo e del nostro sapere”.

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